il problema attuale non è più la lotta della democrazia contro il fascismo ma quello del fascismo nella democrazia (G. Galletta)

Amicus Plato, sed magis amica veritas



sabato 29 giugno 2013

giugno e luglio 1960 "...eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco,..."

Parlando del 30 giugno 1960


…ho scolpito nella memoria in quei giorni di fine giugno, i cantieri edili deserti e, ragazzotti con le magliette a strisce che approfittavano di quel deserto per intrufolarsi e tagliare metri di tondino di ferro per avere qualcosa da utilizzare come proiettili per le loro fionde.
Genova Antifascista esce vittoriosa da quelle giornate, ribadendo la combattività e la compostezza di quel movimento, esattamente come 15 anni prima, si ripulì del ciarpame e mostrò fiera i suoi figli migliori, pronti a sacrifici pur di garantire libertà e democrazia.
Purtroppo i servi dello Stato dovevano sfogare la frustrazione di quella sconfitta, e pochi giorni dopo, a Reggio Emilia il 7 luglio 1960 e in altre parti d’Italia dove l’opposizione al governo Tambroni si manifestava pubblicamente, non esitarono a colpire in modo vigliacco braccianti e operai che si stavano riunendo pacificamente sotto le insegne della CGIL e delle organizzazioni partigiane uscite dalla Resistenza.
Sotto i colpi di arma da fuoco della polizia di Tambroni restarono 11 manifestanti. 
A Licata il 5 luglio cadde Vincenzo Napoli di 24 anni . A Reggio Emilia , fu un agguato premeditato che causò la morte sotto le pallottole dello Stato di Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli; tutti operai e comunisti.
A Palermo nei giorni successivi caddero uccisi dalla polizia Francesco Vella, Andrea Gangitano, Giuseppe Malleo, Rosa La Barbera. A Catania, massacrato dalle manganellate perì Salvatore Novembre.
Naturalmente se lo Stato non è ancora oggi in grado di giudicare se stesso, come dimostra la sentenza Cucchi, o ha serie difficoltà ad accertare e rispondere adeguatamente a responsabilità personali come si evince dai casi Diaz o Aldrovandi, negli anni 60 e in quelli successivi la magistratura si distinse per non accertare alcuna responsabilità, anche quando ci furono testimonianze precise che indicavano gli sparatori.
Loris

Un protagonista politico delle giornate di Genova fu il sempre più compianto Presidente della Repubblica Sandro Pertini che il 28 giugno del 60 a Genova, in Piazza della Vittoria pronunciò un comizio che chiamava a raccolta il popolo operaio e antifascista genovese .

"Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell'Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere "no" al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l'offesa.......leggi tutto>>"



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In occasione del cinquantesimo dei fatti del 30 giugno, la Rai mise in onda il film documentario di Mimmo Calopresti "I Ribelli". Questo blog linkò immediatamente il file che era nell'archivio Rai in quanto è un documento di indubbia qualità sulla storia di quei giorni con autorevoli testimonianze.
Dopo pochissimo tempo però il file veniva rimosso dagli archivi Rai . Che la soppressione di questo documentario , in epoca berlusconiana non abbia implicazioni politiche, è difficile da digerire.
Aiutato da compagni ho reperito questi link che corrispondono al documentario scomparso.






Difendiamo la Costituzione

N°9 -- Stop alle violenze alle frontiere



Questa missione ha portato alla realizzazione di un film, "N°9"5, e al lancio di una campagna, "N°9 -- Stop alle violenze alle frontiere", finalizzati a denunciare la repressione quotidiana e sistematica subita dai migranti ad opera delle autorità marocchine ed il coinvolgimento di quelle spagnole nelle atrocità commesse contro di loro alle frontiere di Melilla e a pretendere la fine dele violenze e le violazioni dei diritti umani nel nord del Marocco e l'apertura di un'inchiesta ufficiale sulle circostanze della morte di Clément e degli altri migranti deceduti intorno alle enclaves spagnole.Sara Creta

estratto con sottotitoli in italiano

completo sottotitolato in inglese

sabato 15 giugno 2013

16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza [Paolo Arvati]

16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza


     Il 16 giugno 1944 non può essere compreso al di fuori della storia delle lotte operaie nella Resistenza genovese. Se una ragione della retata va ricercata nell’esigenza dell’occupante tedesco di disporre di manodopera da inviare in Germania, è ancora più forte la necessità politica dei nazifascisti di chiudere una volta per tutte la lunga e difficile partita aperta con i lavoratori genovesi sin dall’autunno del 1943. La prima grande lotta è infatti datata 27 novembre: sono i tranvieri a scendere in campo con uno sciopero che ha motivazioni politiche, perché è la risposta all’arresto di tre organizzatori antifascisti. Lo sciopero paralizza la città, mostrando clamorosamente la debolezza del controllo nazifascista sull’ordine pubblico. Dieci giorni dopo, lunedì 6 dicembre, scioperano i lavoratori dell’industria. La motivazione delle fermate, che inizialmente interessano tre stabilimenti, è economica, perché la protesta è contro una disposizione che riduce di un terzo la razione mensile dell’olio per persona. Gli “scioperi dell’olio” impegnano a scacchiera le fabbriche del ponente cittadino per una decina di giorni, sino al 17 dicembre, giorno in cui si fermano tutti gli stabilimenti del gruppo Ansaldo. E’ un’onda di piena che coinvolge circa trentamila lavoratori. I GAP, là dove possono, forniscono sostegno armato ai manifestanti che popolano numerosi le strade dei quartieri operai. I gappisti intervengono per bloccare la circolazione dei mezzi pubblici, facendo saltare binari e recidendo le aste dei tram.
     Le autorità nazifasciste, colte di sorpresa dalla forza e dall’estensione del movimento, tentano il sistema del bastone e della carota. A Sestri, durante i tentativi di blocco della circolazione dei tram, è freddato un giovane operaio. A Bolzaneto vengono arrestati due lavoratori, Maffei e Livraghi, che sono fucilati sabato 18. Nello stesso tempo si avviano tentativi di trattativa in cui s’impegna lo stesso amministratore delegato dell’Ansaldo, ingegner Agostino Rocca. I tentativi non portano a nulla, perché la linea dei comitati di agitazione è di non trattare. E’ un manifesto di Zimmermann affisso per tutta la città lunedì 20 dicembre a sancire unilateralmente concessioni salariali e alimentari. I comitati di agitazione dispongono  il ritorno al lavoro a partire da martedì 21, dopo due settimane di scioperi.
     A gennaio è ancora alta la volontà di lotta, tanto che il giorno 13 parte uno sciopero al Fossati che coinvolge il Cantiere, la San Giorgio e poi le fabbriche di Cornigliano, Sampierdarena e Rivarolo, sino all’Alta Valpolcevera. I GAP alzano il tiro, colpendo direttamente i tedeschi la sera del 13 gennaio. Buranello e Scano in Via Venti Settembre sparano ad ufficiali tedeschi, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. Questa volta la reazione è pronta e durissima: nella notte tra il 13 e il 14 otto antifascisti sono prelevati dalle carceri e successivamente giustiziati al Forte di S.Martino. Venerdì 14 gennaio è ancora sciopero. Il giorno dopo gli stabilimenti sono chiusi a tempo indeterminato, per ordine del Prefetto Basile. Il lavoro riprende solo giovedì 20, senza trattative e, soprattutto, senza risultati per i lavoratori.[1]
      La sconfitta di gennaio è molto dura ed è la causa principale del fallimento nelle fabbriche genovesi dello sciopero del 1° marzo 1944. Nel giorno della grande mobilitazione dei lavoratori del Nord, Genova manca l’appuntamento nazionale, salvo isolate fermate, in particolare alla San Giorgio. Il ripiegamento degli operai genovesi durerà quattro mesi. A parte le iniziative in occasione del 1° maggio 1944, quasi tutte esterne alle fabbriche e prodotte da piccoli gruppi, se non addirittura individuali, il movimento entra in un cono d’ombra di apparente tranquillità, anche perché numerosi militanti sono costretti dalla repressione a dileguarsi, senza poter più rimettere piede in fabbrica sino alla Liberazione. Inoltre la Resistenza in questi primi mesi del 1944 subisce altri colpi gravissimi: il 2 marzo cade Buranello, rientrato in città per sostenere militarmente lo sciopero, il 6 aprile avviene il massacro della Benedicta e il 19 maggio l’eccidio del Turchino.
     La mancanza di scioperi non significa però cedimento. Significa solo scelta di modalità differenti di resistenza. Come l’opposizione – straordinaria per forza ed estensione – al tentativo fascista di “normalizzare” la vita sindacale con la costituzione di nuove commissioni interne. Il sindacato fascista effettua il massimo sforzo proprio tra marzo e i primi di maggio del 1944, approfittando del momentaneo ripiegamento delle lotte. I comitati clandestini di agitazione denunciano la natura collaborazionista dell’iniziativa e chiamano i lavoratori a votare scheda bianca oppure ad annullare il voto, segnando i nomi di Buranello e di Livraghi. Buona parte dei lavoratori si rifiuta di votare. Chi va a votare, in grande maggioranza, annulla la scheda. I risultati delle principali fabbriche sono raccolti dagli organismi clandestini e diffusi dal bollettino della Federazione del PCI.[2] Significativamente i risultati peggiori per il sindacalismo collaborazionista vengono da tre delle quattro fabbriche poi investite dalla rappresaglia del 16 giugno: al Cantiere di Sestri su 2339 votanti, tra operai e impiegati, 1519 annullano la scheda; i voti nulli sono poi 200 su 350 alla Piaggio e 2115 su 3969 alla Siac. Si segnalano ancora i risultati del Fossati di Sestri (1845 voti nulli su 2448), della Ceramica Vaccari di Borzoli (342 su 350), dell’Odero T.O. (152 su 258), del Cantiere Ansaldo di Sampierdarena (1840 su 2122). Il fallimento della controffensiva politica fascista è evidente. La risposta dei lavoratori non è la lotta aperta come nei mesi autunnali del 1943 e come a gennaio, ma è altrettanto efficace perché colpisce i fascisti sul terreno della battaglia per il consenso, sconfiggendo l’opzione collaborazionista.
     E’ nella seconda metà di maggio che si creano le condizioni per una nuova fase di lotta.[3] Gli obiettivi sono di carattere economico perché le condizioni di vita sono nettamente peggiorate. In particolare è drammatica la situazione alimentare, per l’esaurimento graduale delle scorte e per la difficoltà gravissima dei rifornimenti. Si vive alla giornata, per di più nel terrore costante dei bombardamenti che tra marzo e giugno si accaniscono sul ponente cittadino con centinaia di morti e feriti. In diversi stabilimenti si torna a rivendicare salario con modalità inedite: nessuna delegazione per le trattative, nessuna elezione di rappresentanze per non esporre i compagni. Spesso a dar voce alle rivendicazioni ci pensano le donne. Talvolta i dirigenti aziendali sono chiamati a discutere nei piazzali e nei reparti: si parla lì e le voci dei compagni provengono dalle seconde e dalle terze file, senza nome e senza faccia. Anche ai dirigenti va bene così: meglio non vedere e non sapere chi parla a nome di tutti. Il fermento è così alto che il prefetto Basile decide di fare un giro nelle fabbriche tra il 19 e il 20 di maggio, proprio nei giorni della strage del Turchino. Basile minaccia e blandisce e sopporta anche fischi e insulti che gli piovono addosso dagli operai, specie al Meccanico di Sampierdarena.
     Il 1° giugno è sciopero alla San Giorgio, al Fossati e al Cantiere. Nel pomeriggio all’Allestimento Navi la polizia spara e rimane ucciso un operaio. Il giorno dopo, venerdì 2, gli scioperi dilagano da Sestri a tutta la Valpolcevera. Nel pomeriggio si fermano le fabbriche di Sampierdarena e di Cornigliano: Meccanico, Carpenteria, Elettrotecnico e Siac. Domenica 4 giugno, giorno della liberazione di Roma, un pesante bombardamento sulla bassa Valpolcevera causa cento morti e centocinquanta feriti. Cresce ancora la rabbia e gli scioperi proseguono per tutta la settimana successiva, incoraggiati dalla notizia dello sbarco alleato in Normandia, dal giorno 7 di dominio pubblico. E’ di nuovo un’onda di piena, come a dicembre e come a gennaio. Fascisti e tedeschi non possono non cogliere il collegamento tra le agitazioni e la nuova fase del conflitto, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma e lo sbarco in Normandia. Venerdì 9 lo sciopero si è ormai diffuso in tutti gli stabilimenti e Basile decide di porvi fine, ordinando la serrata di sette fabbriche. Il testo del comunicato, apparso sui giornali cittadini sabato 10 è chiarissimo. Ho cercato – scrive in sintesi Basile – di spiegarvi come stanno le cose, ma non avete voluto ascoltarmi e ieri, di nuovo, avete scioperato tutti quanti. Perciò ordino la serrata sino a martedì prossimo di Siac, Piaggio, San Giorgio, Cantieri Navali, Carpenteria, Ferriere Bruzzo, Ceramica Vaccari. Vi avverto che questa è la prima e la più blanda delle misure che sto preparando per voi. Ad ulteriore dimostrazione che si sta facendo sul serio, la mattina del 10 poliziotti guidati dal questore in persona, insieme ad un gruppo di SS, irrompono al Meccanico di Sampierdarena, durante uno sciopero di reparto. E’ un’azione molto rapida: il reparto in sciopero viene isolato e sessantaquattro operai sono prelevati, caricati sui camion e portati via. Operazioni di questo tipo sono già state effettuate per lavori di cui i tedeschi hanno urgenza, ma non hanno mai interessato operai prelevati in fabbrica, bensì gente presa a caso per strada.
     Nonostante tutti questi segnali, nessuno all’interno della Resistenza immagina quello che succederà di lì a pochi giorni, nessuno mette in conto la possibilità di una deportazione di massa. Lunedì 12 nelle fabbriche ancora aperte il lavoro riprende regolarmente. Lo stesso succede mercoledì 14 nelle fabbriche sottoposte a serrata. La giornata del 15 trascorre tranquillamente. Venerdì 16, nella tarda mattinata di una giornata caldissima, scatta la rappresaglia guidata dalle forze di occupazione tedesca con la partecipazione di polizia e brigate nere. L’azione è condotta con tecnica militare e ha caratteristiche di un’adeguata preparazione. Innanzi tutto nella scelta degli obiettivi. Per la Siac l’operazione è abbastanza semplice, perché lo stabilimento è relativamente isolato, circondato da colline e i binari della ferrovia hanno diramazioni che arrivano sino alla fabbrica. Più complessa è invece l’operazione per Cantiere, San Giorgio e Piaggio, perché gli stabilimenti sono situati nel contesto urbano di Sestri e hanno parecchie vie di uscita. La contiguità delle tre fabbriche e uno straordinario dispiegamento di forze favoriscono tuttavia il successo, con l’effetto aggiuntivo, probabilmente cercato, di coinvolgere e terrorizzare tutta Sestri. I fatti successivi sono noti e confermati da numerose testimonianze: i lavoratori sono radunati nei piazzali, selezionati, caricati a centinaia su autobus e camion così come sono, in tuta, con gli zoccoli, molti in canottiera. Nella rete cadono in circa millecinquecento, successivamente portati ai punti di concentramento a Campi e a Rivarolo e caricati come bestie su carri ferroviari con destinazione Mauthausen.
      Due giorni dopo, il 18 giugno, escono sulla stampa cittadina due comunicati, uno del comando tedesco, l’altro, truculento e delirante, di Basile che non vuole perdere l’occasione di godersi la festa: “Vi avevo messo sull’avvertita…Non avete voluto ascoltarmi…Oggi più di uno di voi si pente amarissimamente di essersi lasciato sedurre ed illudere…”. Le parole di Basile tradiscono però anche impotenza e paura: “…Intanto quei pendagli da forca che si gabellano per comunisti, si appostano all’angolo dei carruggi o all’uscita di un rifugio al cessato allarme, per colpire alla schiena uno dei nostri, borghese o militare… Meditate bene quanto sto per dire: la pazienza ha un limite…”. I “pendagli da forca” l’indomani colpiranno duro, questa volta molto in alto. Dopo essere sfuggito ad un primo attentato proprio il 16 giugno in Via Garibaldi, vicino a Palazzo Tursi, il 19 a Savignone è liquidato a colpi di mitra il generale della GNR Silvio Parodi. Il 25 giugno esplode una bomba in un bar di Via del Campo frequentato esclusivamente da soldati tedeschi: i morti sono sei e diversi i feriti. Il 30 giugno a Pedemonte sono colpiti a morte quattro ufficiali tedeschi. Il 2 luglio in Piazza Aprosio a Sestri è la volta di un sottufficiale di P.S.
     Tornando alla gigantesca retata del 16 giugno è necessario ricordare che questa si svolge praticamente senza resistenze, salvo qualche isolato episodio di protesta di donne a Sestri. Le testimonianze raccolte da Clara Causa[4] ricordano un gesto disperato del partigiano Piva che nel Cantiere Navale riesce a sparare qualche colpo di pistola contro i tedeschi. Altre testimonianze raccolte da Manlio Callegari[5] citano episodi di azioni individuali di aiuto per la fuga dei deportati. Nel complesso tuttavia l’operazione si svolge nel disarmo completo dell’organizzazione della Resistenza. La domanda obbligata riguarda la possibilità di prevedere, evitare o contrastare la deportazione del 16 giugno. Prevedere forse si, considerando premesse e segni premonitori. Evitare probabilmente no, considerando la sproporzione delle forze in campo in quel momento. Contrastare, attenuando le conseguenze, sicuramente si. Ad avvalorare questa tesi è proprio la testimonianza di Remo Scappini, all’epoca responsabile del Partito Comunista, uno dei capi della Resistenza genovese: “Il rastrellamento rivelò serie deficienze anche del nostro partito, poiché dimostrò che le squadre operaie di difesa avevano trascurato la sorveglianza nelle fabbriche. Certo, di fronte ai mitra puntati non sarebbe stato possibile opporre resistenza, ma se la sorveglianza avesse funzionato e se ci fosse stato un minimo di reazione, si sarebbe creato scompiglio facilitando così la fuga di molti operai, come avvenne in altre circostanze a Genova, a Torino e altrove.” [6]
     Ora è possibile trarre una prima conclusione storiografica. Il 16 giugno chiude drammaticamente a Genova una fase della Resistenza contrassegnata dalla centralità delle grandi lotte operaie.[7] Ci saranno altri scioperi alla fine di ottobre del 1944, contro la minaccia di nuove deportazioni, a novembre contro la diminuzione della razione di pane, e infine nei mesi della mobilitazione pre-insurrezionale.[8] La fabbrica però non è e non potrà più essere il centro dell’iniziativa politica antifascista e antitedesca. Sono i lavoratori per primi a comprenderlo, sino a trarre coerenti conclusioni con il rifiuto (di fatto) dell’indicazione del Partito Comunista e del CLN dello sciopero generale insurrezionale nell’aprile 1945. La mancata effettuazione dello sciopero generale non impedirà, come è noto, il pieno successo dell’insurrezione “modello” di Genova, con il contributo determinante della classe operaia, specie a Sestri e nel ponente industriale della città.[9] A questo proposito Giorgio Bocca ha scritto – efficacemente, anche se impropriamente – che a Genova e in Liguria la lotta di Liberazione ebbe le caratteristiche di una “rivincita operaia”.[10]
     Il secondo problema storiografico collegato al 16 giugno riguarda il peso che nella vicenda ebbe l’esigenza di reclutare lavoro forzato per l’economia di guerra tedesca. Quella della deportazione di manodopera è una storia lunga che inizia dopo l’8 settembre con l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord e della città di Genova. Già nel novembre 1943 l’amministratore delegato dell’Ansaldo Agostino Rocca riesce ad impedire la deportazione di novecento lavoratori destinati alla costruzione di sommergibili a Kiel.[11] Il problema si ripresenta alla fine di gennaio del 1944, quando Rocca viene a sapere dell’esistenza di un piano tedesco di prelievo di circa trentamila lavoratori genovesi, tremila dei quali dovrebbero essere messi a disposizione dall’Ansaldo. Utilizzando i buoni rapporti con Leyers, ingegnere e generale di corpo d’armata plenipotenziario per l’Italia del Nord di Albert Speer, ministro per gli armamenti e la produzione bellica, Rocca riesce nuovamente ad opporsi al trasferimento, offrendo in cambio un aumento di produzione nei propri stabilimenti. Rocca capisce e quindi gioca sul fatto che le pressioni maggiori per il trasferimento di manodopera in Germania vengono dagli industriali tedeschi, più che dalle autorità militari in Italia.
      La situazione precipita alla fine di marzo, allorché vengono inviate agli operai dell’Ansaldo mille cartoline precetto che equivalgono ad un ordine di partenza. Rocca fa ritirare le cartoline e per questo rischia l’arresto da parte delle SS. Alla fine a partire sono solo un centinaio di operai, anziché i tremila in un primo tempo previsti. Un nuovo tentativo tedesco viene effettuato un mese dopo con la richiesta di duemila operai dell’Ansaldo Fossati: il numero è stabilito sulla base della quantità di disoccupati che in quel momento risultano percepire sussidi totali o parziali. Questa sembra la volta buona, perché vengono fissate sia la data della deportazione, il 10 maggio, sia addirittura le procedure di trasferimento, con l’avvertenza tedesca che “le maestranze partiranno come si trovano sul posto di lavoro”. Alla fine salta anche l’appuntamento del 10 maggio, per ostacoli frapposti dalla stessa amministrazione di Salò. Le autorità germaniche preferiscono rinviare l’operazione ad un momento più favorevole che arriverà presto, il 16 giugno, appunto. Quando non saranno possibili obiezioni in presenza di “…una misura di polizia (reazione ad uno sciopero), contro la quale la considerazione costi – profitti – come nel caso delle richieste di aziende di operai per la produzione bellica nel Reich – non avrebbero potuto prevalere.”[12] Sull’intera vicenda della mancata deportazione del Fossati osserva Manlio Calegari: “L’impreparazione, lo stupore, la disperazione di quel giorno (16 giugno, ndr) deriveranno anche dal fatto che in città nulla era trapelato del progetto del 10 maggio. Il fatto che di nulla il CLN avesse avuto sentore, porterebbe a pensare che localmente l’attenzione a simili soluzioni fosse scarsa, tanto esse apparivano irrealistiche. Non ci si aspettava ancora un anno di guerra, né che la Germania mettesse in opera il massiccio trasferimento di risorse materiali e umane che aveva più volte annunciato e tentato.”[13]
     Dal punto di vista tedesco per altro le complicate vicende genovesi sono emblematiche di un più generale fallimento, se rapportato agli obiettivi iniziali di oltre un milione di lavoratori italiani al servizio dell’industria bellica germanica. Fallisce tanto il reclutamento di volontari attuato con la propaganda, quanto l’arruolamento coatto, sia civile, sia militare. “Se esaminiamo le cifre – osserva ancora Klinkhammer – nel 1944 da gennaio a dicembre gli operai dell’industria arruolati furono complessivamente 65.954. Rispetto ai progetti di Sauckel dell’inizio dell’anno, che prevedevano il rastrellamento di un milione e mezzo di lavoratori, e più ancora rispetto alla dichiarazione di Hitler nel marzo, secondo la quale dall’Italia se ne potevano ricavare anche tre milioni, il numero dei lavoratori effettivamente “arruolati” testimonia con tutta chiarezza il fallimento dell’organizzazione Sauckel. Anche di fronte a circa 450.000 militari internati, che in agosto furono trasformati d’autorità in lavoratori civili, e che per altro lavoravano già in precedenza nell’industria degli armamenti, risulta evidente la scarsa importanza che ebbero per l’industria bellica tedesca i nuovi arruolamenti.”[14] In altri termini il reclutamento di lavoratori italiani da parte dell’occupante tedesco si ridusse a quello che in effetti fu il 16 giugno a Sestri: pura operazione di polizia, di repressione della protesta, di umiliazione e di annichilimento di un’intera comunità.
     In conclusione una riflessione su un ultimo problema storiografico legato al 16 giugno. Colpisce la sproporzione tra il peso che quella tragedia ebbe nella storia della Resistenza genovese e che tuttora ha nella memoria collettiva dei sestresi, tramandata com’è di generazione in generazione, e l’attenzione tutto sommato scarsa che il 16 giugno ha avuto e nella storiografia locale (salvo le eccezioni più volte citate), e ancor più nella storiografia nazionale della Resistenza e, più in generale, del periodo 1943 – 1945. Una maggiore attenzione deve essere sollecitata ed anche pretesa. Il modo giusto per farlo, a livello locale, è però quello di aiutare la ripresa della ricerca mettendo a disposizione una testimonianza come quella di Orlando Bianconi che, senza nulla togliere ad altre testimonianze, [15] ha il pregio di essere stata prodotta (quasi) contemporaneamente allo svolgimento di una difficile vicenda di deportazione.
     I diari possono essere letti da due punti di vista. Il primo riguarda la terribile vicenda di un uomo non più giovane (quarantatre anni al momento della deportazione) che improvvisamente, in una “…giornata d’estate...” in cui “…nulla fa presagire quanto sta per accadere…” deve subire una violenza cieca che lo costringe ad abbandonare tutto, lavoro, casa, famiglia, affetti: “ore 19 partenza, lungo la linea numerose persone, tra cui donne e fanciulli piangenti, salutano noi e maledicono loro…”. Lo stile è asciutto, essenziale, ma nulla è dimenticato: un gesto di generosità (“…a Ronco Scrivia una ragazza mi offre tutto il denaro del suo borsellino, ringrazio il suo buon cuore, ma cosa farne?”), il pensiero della fuga (“A tratti odo come se il predellino del carro urtasse in un mucchio di sabbia, ma comprendo cos’è il rumore: è la caduta dei fuggitivi…Sono avvilito per non poter essere anch’io tra loro, mi consola il pensiero che almeno qualcuno riesca a fuggire.”). Poi l’arrivo, con il terrore di una scoperta: “…riesco a leggere il nome della stazione d’arrivo: Mauthausen. Comprendo come un fulmine…ricordo il terribile campo dove durante la guerra 1914 – 18 perirono migliaia di prigionieri.”
     E ancora il freddo, la fame, i maltrattamenti gratuiti (“…come se si fosse una mandria di bestie...”), il disagio (“…bisogna arrangiarsi, in tre su un pagliericcio…”), soprattutto l’incertezza (“L’argomento principale è come finiremo, ci manderanno al lavoro o ci terranno lì a far la vita del campo?”). Con l’incertezza arriva la paura di ammalarsi (“Per quanto può durare a fare una vita simile un individuo? Poco, perché appena si ammala per lui c’è il forno crematorio…”), di prendere botte (“…schiaffi e pedate, per gusto, basta non togliersi il berretto quando passa sia un soldato che un ufficiale, anche a una certa distanza, lavorando o no…”), soprattutto di non rivedere più i propri cari (“…quando sono a letto penso a mia moglie e al mio bimbo Severino, che chissà quando e se li rivedrò…”).
     La seconda chiave di lettura dei diari riguarda l’operaio specializzato elettricista Orlando Bianconi, entrato alla Piaggio di Sestri perché “…è una delle poche fabbriche che non costringeva i suoi dipendenti all’iscrizione obbligatoria al Partito Nazionale Fascista”. “Era un libero pensatore – osserva il figlio Severino – anche dopo la Liberazione Orlando continuò ad esserlo, senza mai iscriversi ad alcun partito”. La vena libertaria si sposa con il forte attaccamento al lavoro e con l’orgoglio di appartenere ad una realtà culturalmente più avanzata: “…si credono una razza eletta…Vale più un semplice manovale di noi che un capo di loro. Un lavoro che in Italia si impiega un giorno per farlo bene, qui ne occorrono tre per farlo male…Conoscono solo il lavoro, mangiare, dormire e avere figli. Loro vivono per lavorare, mentre noi lavoriamo per vivere”. E’ grazie al proprio mestiere che Orlando riesce a migliorare un poco la propria condizione di deportato. Si dà da fare e nel tempo libero ripara radio, facendosi così apprezzare dagli austriaci. Una volta accettato, Orlando scopre che anche tra i tedeschi ci sono “…molte brave persone…” e che tra i suoi compagni di lavoro c’è chi come lui odia fascismo e nazismo (“…Eric Streif è un antinazista, ci offre sempre da fumare e mai un rimprovero per nessun motivo. Comprende che siamo vittime di un partito e forzati a fare un lavoro non nostro, perciò quello che facciamo è fin troppo…”). Quando finalmente arriva il giorno della libertà, Orlando è lapidario, quasi a trattenere un’emozione inesprimibile, troppo grande per poter essere raccontata con più di dieci parole: “4 maggio 1945. Esco, appena fuori spunta la prima macchina americana. Sono le 8,30.”
     Con la sua sensibile (e ruvida) personalità Orlando Bianconi narra se stesso e, forse senza rendersene conto, anche la sua classe sociale. L’operaio “medio” genovese è infatti adulto, istruito, ad elevata qualificazione professionale. Mestiere, orgoglio professionale, coscienza fiera, indipendenza intellettuale (che si sia “liberi pensatori” o militanti di partito poco importa): questi sono i tratti molto nitidi di un soggetto sociale forte, capace di esprimere autonomamente valori e culture. Da questo punto di vista la Resistenza genovese è stata veramente una straordinaria “rivincita operaia”.


Sestri, dicembre 2008                                                                  Paolo Arvati  




[1] Sulle lotte dell’autunno inverno 1943 - 1944: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Istituto Storico della Resistenza, Genova 1968, pp. 71-86; M.Calegari, Comunisti e partigiani, Genova 1942 – 1945, Selene Edizioni, Milano 2001, pp. 149 – 171.
[2] L’episodio è analizzato dettagliatamente da Antonio Gibelli in Genova operaia nella Resistenza, cit. pp.101-108.
[3] L’analisi più completa del periodo maggio – giugno 1944, oltre che dello stesso evento del 16 giugno, è di Manlio Calegari in Comunisti e partigiani, cit. pp. 192 – 205.
[4] C.Causa, La Resistenza sestrese, ANPI Sestri Ponente, Genova 2000, pp. 82 – 85.
[5] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag. 201.
[6] R.Scappini, Da Empoli a Genova, La Pietra, Milano 1981, pag. 199.
[7] A questa conclusione giungono i contributi di M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. , S. Antonini, La Liguria di Salò, De Ferrari, Genova 2001, P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, ILSREC, Storia e Memoria, n. 2, 2004.
[8] Su questi episodi di lotta: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, cit.
[9] Sull’insurrezione di Genova: M. Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pp. 483 – 489; P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, cit.; M.E.Tonizzi (a cura di), A wonderful job, Carocci, Roma 2006.
[10] G.Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Arnoldo Mondadori, Milano 1995, pag.331.
[11] Sulla deportazione di lavoro forzato: L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 161 – 165 e 366 - 411.
[12] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, cit. pag.165.
[13] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag.194.
[14] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, cit. pag. 371.
[15] Si ricorda in particolare: P.Villa, Ricordi di un deportato nel Terzo Reich, Nuova Editrice Genovese, Genova 1997.

venerdì 14 giugno 2013

Canzoniere delle Lame e Ivan Della Mea




…Pochi giorni fa ci ha lasciato Patrizio Nocciolini . A molti il nome non rievocherà niente, ma per chi, della mia generazione, negli anni 70 percorreva le strade dell’impegno politico, associato al nome del “Canzoniere delle Lame” quel nome rappresentava il fare politica con la musica.
Lo voglio ricordare oggi per accumunarlo ad un altro grande della musica popolare di quegli anni: Ivan della Mea, scomparso pure lui il 14 giugno del 2009.




Per ricordare Patrizio Nocciolini (Noce)

parole e musica di Patrizio Nocciolini

Era la sua casa,
era il suo paese
la storia che racconto
è di tanti anni fa
Ma vennero i fascisti
e lui lasciò la casa
abbandonò il paese
lontano se ne andò
Lontano combatteva
con dei nuovi compagni
sognava il suo paese
tornato in libertà
Tornò da partigiano
un'arma per compagna
morì nel suo paese
trovò la libertà
Un uomo come mille
del quale non sta scritto
 il nome dentro ai libri
tante storie così
Ma il popolo la storia
fa senza generali
la scrive tutti i giorni
anche se non lo sa
Fascisti questa Italia
l'han fatta i partigiani
restate nelle fogne
il posto qui non è
Compagni stiamo attenti
siam sempre partigiani
la scelta l'abbiam fatta
anche per il domani.


parole e musica di Patrizio Nocciolini

Là nella terra del tuo Vietnam
la pioggia è sangue compagno Vinh Long
il sole è nero
il cielo è morte
ma tu combatti ancor.

Ma nella terra del tuo Vietnam
spunterà un fiore compagno Vinh Long
la vita è un fiore
che tu hai piantato
domani sboccerà.

Siamo a migliaia compagno Vinh Long
siamo venuti per il tuo Vietnam
dacci la mano
andiamo insieme
la vita fiorirà.

Per ricordare Ivan Della Mea



“O cara moglie stasera ti prego
di’ a mio figlio che vada a dormire
perché le cose che io ho da dire
non sono cose che deve sentir.

Proprio stamane là sul lavoro
con il sorriso del capo sezione
mi è arrivata la liquidazione,
mi han licenziato senza pietà.

E la ragione è perché ho scioperato
per la difesa dei nostri diritti,
per la difesa del mio sindacato,
del mio lavoro e della libertà.

Quando la lotta è di tutti e per tutti
il tuo padrone vedrai cederà,
se invece vince è perché i crumiri
gli dan la forza che lui non ha.

Questo si è visto davanti ai cancelli,
noi si chiamava i compagni alla lotta
ecco il padrone fa un cenno una mossa
e un dopo l’altro cominciano a entrar.

O cara moglie dovevi vederli
venire avanti curvati e piegati
noi a gridare: Crumiri venduti!,
e loro dritti senza guardar.

Quei poveretti facevano pena
ma dietro a loro là sul portone
rideva allegro il porco padrone,
li ho maledetti senza pietà.

O cara moglie io prima ho sbagliato,
di’ a mio figlio che venga a sentire
che ha da capire che cosa vuol dire
lottare per la libertà,

Che ha da capire che cosa vuol dire
lottare per la libertà”.

giovedì 13 giugno 2013

La Camera voti lo stop agli F35


Pubblichiamo l’appello promosso da Ascanio Celestini, Luigi Ciotti, Riccardo Iacona, Chiara Ingrao, Gad Lerner, Savino Pezzotta, Roberto Saviano, Cecilia Strada, Umberto Veronesi e Alex Zanotelli in vista della discussione alla Camera dei Deputati della mozione – sostenuta da 158 deputati SEL, PD e M5S) – che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al programma dei cacciabombardieri F-35.

"Nei prossimi giorni la Camera dei Deputati discuterà una mozione di 158 parlamentari di Sel, Pd e M5S che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al programma dei cacciabombardieri F-35 Joint Strike Fighter.

In linea con le richieste e indicazioni della campagna «Taglia le ali alle armi» (che dal 2009 si batte contro i caccia) sosteniamo questa nuova iniziativa parlamentare e tutte quelle che si renderanno necessarie per bloccare una scelta così sbagliata.

Spendere 14 miliardi di euro per comprare (e oltre 50 miliardi per l'intera vita del programma) un aereo con funzioni d’attacco, capace di trasportare ordigni nucleari, mentre non si trovano risorse per il lavoro, la scuola, la salute e la giustizia sociale è una scelta incomprensibile che il Governo deve rivedere.

Per questo chiediamo a tutti i Deputati di sostenere questa mozione e tutte le iniziative parlamentari tese a fermare il programma degli F35 e a ridurre le spese militari a favore del lavoro, dei giovani, del welfare e delle misure contro l’impoverimento dell’Italia e degli italiani".

Ascanio Celestini, Luigi Ciotti, Riccardo Iacona, Chiara Ingrao, Gad Lerner, Savino Pezzotta, Roberto Saviano, Cecilia Strada, Umberto Veronesi, Alex Zanotelli

* * *

Dopo le dichiarazioni critiche sul progetto in campagna elettorale (provenienti dalla stragrande maggioranza dei gruppi politici), dopo che la campagna “Taglia le ali alle armi” aveva sottolineato l’esistenza in linea di principio di una maggioranza parlamentare per il “NO” al progetto Joint Strike Fighter, sono oggi dieci personalità di rilievo nazionale a lanciare un appello che si allinea alle richieste del movimento che si oppone ai caccia F-35.

Un appello diffuso in vista della discussione alla Camera dei Deputati di una mozione (sostenuta da 158 deputati SEL, PD e M5S) che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al progetto di costruzione ed acquisto dei caccia di quinta generazione.

Esponenti dell’informazione e della cultura come Gad Lerner, Roberto Saviano, Ascanio Celestini e Riccardo Iacona e personalità del mondo della Pace come Cecilia Strada e Chiara Ingrao; personaggi di rilievo pubblico (e primi firmatari di mozioni contro gli F-35 nella scorsa legislatura) come Umberto Veronesi e Savino Pezzotta e due figure importanti del mondo dell’impegno cattolico come padre Alex Zanotelli e don Luigi Ciotti. Tutti insieme per chiedere al nostro Parlamento una scelta di responsabilità su questo tema particolare e su quello delle spese militari in generale.

“Ci troviamo di fronte ad un passo importante per far sentire con forza ai nostri Deputati come sia davvero necessario che il Parlamento riprenda in carico questo tema” afferma Francesco Vignarca coordinatore di Rete Italiana per il Disarmo. Se è vero infatti che è oggi il Governo – a seguito di tutti i passaggi di autorizzazione previsti dalla legge – a poter decidere autonomamente sull’acquisto dei caccia F-35, è anche vero che la situazione è molto cambiata dal 2009 (data dell’ultima votazione parlamentare a riguardo) e nell’ottica della difficile situazione del paese su più fronti non si può certo tirare dritto come se nulla fosse mutato. “Va poi detto che da più parti (anche da chi non vuole subito una cancellazione del programma, e perfino dallo stesso nuovo Ministro della Difesa) si è sottolineata la necessità di avere sugli F-35 una franca e piena discussione in Parlamento” conclude Vignarca.

Nel testo dell’appello si sottolinea come la scelta di continuare ad acquisire i cacciabombardieri con capacità nucleare sia “incomprensibile” vista l’attuale mancanza di risorse “per il lavoro, la scuola, la salute e la giustizia sociale”.

“Quella degli F-35 è una gran brutta storia che fa male agli italiani e alla nostra democrazia” commenta Flavio Lotti coordinatore della Tavola della Pace. “Gli F-35 fanno male agli italiani perché sottraggono preziose risorse che attendono di essere utilizzate per combattere la disperazione e la disoccupazione di molte donne e uomini del nostro paese. Gli F-35 fanno male alla nostra democrazia perché attorno a queste armi si muove un complesso reticolo di interessi politici, economici e militari che stanno inquinando e minando in profondità le istituzioni del nostro paese. Per questo è bene che il nuovo Parlamento si pronunci chiaramente.”

La campagna “Taglia le ali alle armi” ha già sottolineato con preoccupazione le recenti parole del Ministro Mauro che ha descritto il caccia F-35 come uno “strumento per la pace” da utilizzarsi in ottica di proiezione anche per interventi lontani dall’Italia.

“Il Parlamento ha un'ottima occasione per riavvicinarsi a un'ampia parte della popolazione, che è sicuramente contro gli F3-5 ­ sottolinea Grazia Naletto co-portavoce della campagna Sbilanciamoci! - Non possiamo mantenere anche su un tema delicato come questo la grande distanza tra le richieste e le convinzioni delle italiane e degli italiani e le scelte della nostra politica. In tal senso giudichiamo positivamente la presentazione di analoghi documenti per il NO agli F35 anche al Senato, auspicando che a breve possa avvenire anche in tale ramo del Parlamento una discussione approfondita” 

La campagna “Taglia le ali alle armi” ribadisce, come già detto nei giorni scorsi, che la discussione alla Camera può diventare l’occasione per far crescere la consapevolezza che l’acquisto dei caccia F-35 non può essere condotto e deciso sulla base di dati parziali e non corretti, come invece è stato fatto in tutti questi anni. Le stime diffuse dalla nostra Campagna da tempo dimostrano come i dati del Ministero della Difesa riguardo ai costi, ai tempi, e alle ricadute occupazionali e tecnologiche siano assolutamente falsate e non corrispondano a verità. Il costo di acquisto dei 90 caccia previsti si attesterà su 14 miliardi di euro mentre il costo “di vita” dell’intero programma supererà i 50 miliardi di euro. 

(13 giugno 2103)

mercoledì 12 giugno 2013

Piazza Taksim - l'indignazione occidentale non è più sufficiente (video)



Dura repressione da parte del regime di Erdogan. Le immagini si riferiscono all'arresto all'interno del palazzo di giustizia degli avvocati difensori degli oppositori al regime che manifestano in piazza Taksim.
L'indignazione non è più sufficiente. E' necessario che la comunità internazionale intervenga contro la svolta dittatoriale del governo Turco.



Oltre alla difesa del Gezi Park i Turchi che oggi manifestano in piazza Taksim rivendicano la laicità dello  Stato turco come la disegnò il padre fondatore della moderna Repubblica Turca Mustafa Kemal Atatürk

 

Per il rispetto dell'esito referendario


Oggi il Comitato per l'acqua pubblica di Genova ha dato appuntamento al popolo referendario a Palazzo Tursi, durante la settimanale seduta del Consiglio Comunale. Scopo della presenza era ricordare agli amministratori presenti che a due anni dalla vittoria dei referendum per l'acqua pubblica, in realtà non è stato fatto niente per soddisfare l'esito di quel referendum.
Il richiamo al rispetto di quel voto popolare è sintetizzato nelle dichiarazioni nel video da Silvia Parodi del Comitato per l'acqua pubblica di Genova.

martedì 11 giugno 2013

La Questione Morale (Repubblica, 1981) Intervista a Enrico Berlinguer

l'11 giugno 1984 si spegneva a Padova Enrico Berlinguer. La memoria di chi fu e cosa fu la affido a questa intervista di Eugenio Scalfari su Repubblica del 1981. Naturalmente potrebbero essere molti gli spunti per una spolverata alla memoria, credo però che nelle parole dell'intervista si possa cogliere "la cifra" tra due concezioni "epocali" del fare politica : Quella del tempo di Berlinguer e quella attuale.
Altre considerazioni, il giorno dopo il trionfo dell'astensionismo, ancor prima che l'affermazione nelle amministrative di un "centro-sinistra" dalle varie anime risulta superflua .
Ripetere incessantemente  " Enrico ci manchi" non è un attestato di stima e amore dal carattere nostalgico, ma un preciso atto d'accusa nei confronti di chi ha dilapidato un patrimonio morale e culturale che oggi viviamo materialmente sulla nostra pelle.
admin: Loris




La questione morale
Enrico Berlinguer - Repubblica, 1981 
Intervista a Enrico Berlinguer

«I partiti sono diventati macchine di potere» 

«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.

«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».


di : Eugenio Scalfari


* * *


La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.


Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.


«La Repubblica», 28 luglio 1981 



sabato 8 giugno 2013

Partigiani della cultura e dell’informazione



“L’informazione è come una banca e il nostro dovere è rapinarla”Recitato da Genesis P. Orrige, dalla sceneggiatura di Klaus Maeck, per il film DECODER di Muscha (Germania 1984).


Nel momento più florido della cultura multimediale underground tedesca erano nati diversi progetti ispirati alla fantascienza distopica e politica di George Orwell e di Ray Bradbury. Nel 1984 il mondo immaginato da Orwell non si era ancora realizzato, ma una nuova onda di creativi ed intellettuali stavano avviando un lavoro di cultura anticonvenzionale che avrebbe stabilito le basi delle avanguardie moderne come il citato DECODER. Rimanendo nel contesto della fantascienza, intesa come strumento di analisi sociale, in quello stesso anno veniva scritto NEUROMANCER di William Gibson. Il primo romanzo emblematico della cultura “cyberpunk” avrebbe anticipato la nascita di internet e dell’attivismo politico ed artistico dei giorni nostri.
Oggi però ci sono anche nuove generazioni meno colte che pensano che il Grande Fratello non sia il dittatore perfetto immaginato da Orwell ma il reality a cui vogliono partecipare, oppure che le veline siano ragazze giovani e carine che con tacchi a spillo e vestitini provocanti portano foglietti a comici travestiti da giornalisti, nessuno ricorda più cosa fossero le veline ai tempi del fascismo.
In Iran Facebook è autorizzato mentre la Tunisia ha cercato di proibirlo e chiuderlo durante la primavera araba, quella che a prima vista può sembrare democrazia è invece (come ci spiega a Cannes il regista Mohammad Rasoulof nel film MANUSCRIPTS DON’T BURN) uno strumento facile per monitorare e catalogare le persone ed identificare potenziali dissidenti.
L’informazione è una banca mondiale che fa gola a tutti e su cui tutti quelli che detengono un potere totalitario vogliono mettere un lucchetto. L’informazione è cultura e la cultura libera apre la mente e rende la persona critica ed analitica verso il mondo in cui vive, meno sei colto più sei manipolabile ed anche se non hai un titolo di studio meno sei informato e più sei schiavo di chi ti informa.
Ogni anno vado al Festival di Cannes per ragioni di lavoro, oltre agli impegni e le parentesi mondane quello a cui sono volontariamente sottoposto è una doccia di film, di informazioni, di cultura di tutto il mondo. Dopo le ultime elezioni, dopo un periodo di stasi passato a leggere i giornali, la televisione e seguire la politica del mio Paese mi sono ritrovato davanti una specie di dipinto collettivo di artisti sul mondo, sulla politica mondiale e su come si stanno muovendo le cose nella nostra società globale. Tornando a casa, dopo un violentissimo ed esaltante “brainstorming” di cinema mondiale ho sentito con chiarezza che l’informazione da noi e la stessa cultura sembrano assopite, non guardiamo o non vogliamo guardare il mondo che cambia, non sappiamo o non vogliamo sapere quello che esiste fuori dal nostro Paese.
In effetti ancora adesso facciamo fatica ad accettare di non essere più solo Italia ma parte dell’Europa, trattiamo le elezioni europee con superficialità e prendiamo atto delle decisioni comunitarie con intolleranza, non riconoscere di fare parte dell’Europa o del mondo non significa che non saremo travolti dai cambiamenti, significa solo che non saremo preparati a sostenerli quando arriveranno. Sento che oggi il mio Paese fa fatica a riconoscersi parte del mondo, protagonista di un processo evolutivo sociale e politico.
La cultura in Italia è in crisi come ogni forma di cultura e si tende a dare la colpa alla crisi economica, eppure la Francia in crisi economica ha rafforzato gli appoggi alla cultura, anche l’Inghilterra ha fatto lo stesso e molti altri Paesi hanno ragionato con lo stesso principio. Noi che siamo la culla dell’arte invece ci siamo assopiti sotto al sole, come i protagonisti della GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino, lasciando che faccendieri anonimi e ben vestiti guidino nell’ombra il Paese. Forse il nostro dovere è quello di “rapinare” culturalmente l’informazione, diffondere da bravi partigiani le verità nascoste dalla televisione generalista e cercare di risvegliare la mente e la passione dei cittadini che sempre in meno vanno a votare perchè stanchi, disinformati o delusi.
Forse dobbiamo denunciare come fa il coraggioso regista cinese Jia Zhangke nel suo “A touch of sin” che l’economia non va messa prima degli esseri umani, che la religione viene dopo la persona (come urlano inascoltati i registi iraniani scomodi al regime) oppure che un singolo individuo non può essere superiore al collettivo che è chiamato a governare (come fanno le Pussy Riot contro Putin).
Tutto questo lo può fare solo una cultura libera ed accessibile a chiunque, forse è questo il prossimo passo da fare come cittadino responsabile, sostenere il diritto allo studio per qualsiasi età e condizione economica, promuovere la diffusione delle opere attraverso spazi non monopolizzati da pochi potenti e combattere perchè non resti indietro un singolo Cinema, Teatro, Operatore culturale o cittadino, perchè tutti abbiamo il diritto di sapere. Essere partigiani della costituzione vuol dire esserlo anche dell’informazione e della cultura, vuol dire “rapinare” l’informazione perchè tutti possano democraticamente fruirne.

Daniele Clementi


venerdì 7 giugno 2013

"Compagni, lavorate tutti, casa per casa, strada per strada, azienda per azienda"

Ci manchi! Ci manchi! Ci manchi


« […] Ma ancora una volta si è dimostrato che non è possibile in Italia salvaguardare le istituzioni democratiche se si escludono i comunisti. E questo non perché esista il cosiddetto potere di veto, di cui va cianciando qualcuno, del Partito Comunista verso i governi e verso i provvedimenti che non gli sono graditi, ma per una ragione più profonda: perché il Partito Comunista ha assunto e difeso una funzione di garante democratico. Chi voglia escludere il Partito Comunista, chi voglia governare contro questo partito, che rappresenta da solo un terzo dell’elettorato ma anche la parte maggiore della popolazione attiva, lavoratrice, impegnata, giovane porta i risultati di dissesto e di caos che in queste ore sono sotto gli occhi di tutti. E questo è il motivo principale per cui noi riteniamo di poter chiedere, con tranquilla coscienza, il voto anche ai militanti ed elettori del Partito Socialista, anche ai cattolici democratici, a una parte grande degli stessi democristiani; a quanti sentono che siamo arrivati a un momento in cui tornano in gioco le questioni essenziali della libertà e della democrazia. I comunisti hanno dimostrato anche negli ultimi mesi di sapersi battere per garantire le libertà e i diritti democratici non solo per sé stessi in quanto opposizione ma per tutti, anche per chi non è comunista, anche per chi è avversario dei comunisti!
Vorrei congedarmi da voi, cittadini di Padova, con qualche parola su di voi e sulla vostra città. Negli anni scorsi si è molto parlato di Padova in Italia per le tormentate vicende che essa ha vissuto in conseguenza della concentrazione di forze terroristiche che qui si è formata e per la lotta ampia e tenace contro di esse condotta dalle forze vive della città. In questa lotta decisiva è stata l’alleanza tra i lavoratori e le forze della cultura e dell’Università; decisivo è stato il ruolo che hanno svolto i comunisti padovani. Proprio quella grande lotta democratica contro l’eversione ha rivelato a Padova la presenza di grandi energie, dinamiche, progressiste, sia in campo laico che in campo cattolico. In primo luogo quelle da tradizione universitaria, laica e della libera ricerca, espressione nei secoli di un pensiero che non si piega ai dogmatismi e ai fanatismi. Qui a Padova, nello studio che fu di Galileo e di altri grandi pensatori, vi è una delle radici culturali che da ragione della vigorosa azione svolta dalla intellettualità e dell’Università nell’antifascismo e nella guerra di Liberazione nazionale. I nomi dei comunisti Eugenio Curiel e Concetto Marchesi, insieme a quelli di Silvio Trentin e di Egidio Meneghetti, ne sono emblematica testimonianza. E c’è la Padovadei giovani: nella vostra città ci sono cinquantamila studenti universitari e decine di migliaia di studenti medi che si trovano spesso ad affrontare gravi e pesanti problemi: quelli di servizi, della qualità dello studio, del funzionamento delle strutture scolastiche, della vita culturale e associativa, della liberazione dalla tossicodipendenza: problemi che sono ben lungi dall’essere risolti. E invece, nel mondo giovanile vi sono immense energie e potenzialità; in esso è più che mai viva l’esigenza di prospettive, di cambiamenti, di un futuro per il quale valga la pena di lavorare, di studiare, di lottare.
Le vecchie forze del tradizionale notabilato democristiano non sono più capaci di offrire punti di riferimento, né di suscitare energie, ripiegate come sono su sé stesse, in particolare dopo la sconfitta subita nel giugno dell’anno scorso dalla Democrazia Cristiana. Nel mondo cattolico si sviluppano, però, e si esprimono sensitività e iniziative (si pensi al movimento, unico nel suo genere, delle Pastorali del Lavoro o i gruppi che operano per la pace) che si manifestano come popolo autonomo rispetto alla vecchia area democristiana; ebbene, a tutte queste forze della cultura, della scienza, del lavoro, del mondo giovanile, a quelle più vive e aperte della realtà cattolica, i comunisti indicano una prospettiva di pace, in Europa e nel mondo, di risanamento e di trasformazione del nostro Paese, di rinnovamento della politica e dell’organizzazione della società, in una salda garanzia di democrazia e di libertà.
Votando Partito Comunista Italiano si contribuisce a portare in Europa un’Italia diversa a cui l’hanno ridotta i partiti che l’hanno governata finora e che la governano tuttora; si contribuisce a portare in Europa non l’Italia della P2 ma l’Italia pulita, democratica, l’Italia dei lavoratori che hanno detto e dicono no al “Decreto sulla Scala Mobile”, l’Italia della grande manifestazione del 24 marzo a Roma, l’Italia delle forze sane della produzione, della tecnica, della cultura, l’Italia di donne che vogliono cambiare la società non solo per acquisire una parità di diritti effettiva dell’accesso al lavoro, alle professioni, alle carriere, ma per fare parte della società con le doti generali di cui esse sono le peculiari portatrici dopo secoli di oppressione e di emarginazione.
E ora compagne e compagni, vi invito a impegnarvi tutti, in questi pochi giorni che ci separano dal voto, con lo slancio che sempre i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali della vita politica. Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo, è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà!»

Padova, 7 giugno 1984.

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