16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza
Il 16 giugno 1944 non può
essere compreso al di fuori della storia delle lotte operaie nella Resistenza
genovese. Se una ragione della retata va ricercata nell’esigenza dell’occupante
tedesco di disporre di manodopera da inviare in Germania, è ancora più forte la
necessità politica dei nazifascisti di chiudere una volta per tutte la lunga e
difficile partita aperta con i lavoratori genovesi sin dall’autunno del 1943.
La prima grande lotta è infatti datata 27 novembre: sono i tranvieri a scendere
in campo con uno sciopero che ha motivazioni politiche, perché è la risposta
all’arresto di tre organizzatori antifascisti. Lo sciopero paralizza la città,
mostrando clamorosamente la debolezza del controllo nazifascista sull’ordine
pubblico. Dieci giorni dopo, lunedì 6 dicembre, scioperano i lavoratori
dell’industria. La motivazione delle fermate, che inizialmente interessano tre
stabilimenti, è economica, perché la protesta è contro una disposizione che
riduce di un terzo la razione mensile dell’olio per persona. Gli “scioperi
dell’olio” impegnano a scacchiera le fabbriche del ponente cittadino per una
decina di giorni, sino al 17 dicembre, giorno in cui si fermano tutti gli
stabilimenti del gruppo Ansaldo. E’ un’onda di piena che coinvolge circa
trentamila lavoratori. I GAP, là dove possono, forniscono sostegno armato ai
manifestanti che popolano numerosi le strade dei quartieri operai. I gappisti
intervengono per bloccare la circolazione dei mezzi pubblici, facendo saltare
binari e recidendo le aste dei tram.
Le autorità nazifasciste, colte di
sorpresa dalla forza e dall’estensione del movimento, tentano il sistema del
bastone e della carota. A Sestri, durante i tentativi di blocco della
circolazione dei tram, è freddato un giovane operaio. A Bolzaneto vengono
arrestati due lavoratori, Maffei e Livraghi, che sono fucilati sabato 18. Nello
stesso tempo si avviano tentativi di trattativa in cui s’impegna lo stesso
amministratore delegato dell’Ansaldo, ingegner Agostino Rocca. I tentativi non
portano a nulla, perché la linea dei comitati di agitazione è di non trattare. E’
un manifesto di Zimmermann affisso per tutta la città lunedì 20 dicembre a
sancire unilateralmente concessioni salariali e alimentari. I comitati di
agitazione dispongono il ritorno al
lavoro a partire da martedì 21, dopo due settimane di scioperi.
A gennaio è ancora alta la volontà di
lotta, tanto che il giorno 13 parte uno sciopero al Fossati che coinvolge il
Cantiere, la San Giorgio e poi le fabbriche di Cornigliano, Sampierdarena e
Rivarolo, sino all’Alta Valpolcevera. I GAP alzano il tiro, colpendo
direttamente i tedeschi la sera del 13 gennaio. Buranello e Scano in Via Venti
Settembre sparano ad ufficiali tedeschi, uccidendone uno e ferendone gravemente
un altro. Questa volta la reazione è pronta e durissima: nella notte tra il 13
e il 14 otto antifascisti sono prelevati dalle carceri e successivamente
giustiziati al Forte di S.Martino. Venerdì 14 gennaio è ancora sciopero. Il
giorno dopo gli stabilimenti sono chiusi a tempo indeterminato, per ordine del
Prefetto Basile. Il lavoro riprende solo giovedì 20, senza trattative e,
soprattutto, senza risultati per i lavoratori.
La sconfitta di gennaio è molto dura ed
è la causa principale del fallimento nelle fabbriche genovesi dello sciopero
del 1° marzo 1944. Nel giorno della grande mobilitazione dei lavoratori del
Nord, Genova manca l’appuntamento nazionale, salvo isolate fermate, in
particolare alla San Giorgio. Il ripiegamento degli operai genovesi durerà
quattro mesi. A parte le iniziative in occasione del 1° maggio 1944, quasi
tutte esterne alle fabbriche e prodotte da piccoli gruppi, se non addirittura
individuali, il movimento entra in un cono d’ombra di apparente tranquillità, anche
perché numerosi militanti sono costretti dalla repressione a dileguarsi, senza
poter più rimettere piede in fabbrica sino alla Liberazione. Inoltre la
Resistenza in questi primi mesi del 1944 subisce altri colpi gravissimi: il 2
marzo cade Buranello, rientrato in città per sostenere militarmente lo
sciopero, il 6 aprile avviene il massacro della Benedicta e il 19 maggio
l’eccidio del Turchino.
La mancanza di scioperi non significa
però cedimento. Significa solo scelta di modalità differenti di resistenza.
Come l’opposizione – straordinaria per forza ed estensione – al tentativo
fascista di “normalizzare” la vita sindacale con la costituzione di nuove
commissioni interne. Il sindacato fascista effettua il massimo sforzo proprio
tra marzo e i primi di maggio del 1944, approfittando del momentaneo
ripiegamento delle lotte. I comitati clandestini di agitazione denunciano la
natura collaborazionista dell’iniziativa e chiamano i lavoratori a votare
scheda bianca oppure ad annullare il voto, segnando i nomi di Buranello e di
Livraghi. Buona parte dei lavoratori si rifiuta di votare. Chi va a votare, in
grande maggioranza, annulla la scheda. I risultati delle principali fabbriche
sono raccolti dagli organismi clandestini e diffusi dal bollettino della Federazione
del PCI.
Significativamente i risultati peggiori per il sindacalismo collaborazionista
vengono da tre delle quattro fabbriche poi investite dalla rappresaglia del 16
giugno: al Cantiere di Sestri su 2339 votanti, tra operai e impiegati, 1519
annullano la scheda; i voti nulli sono poi 200 su 350 alla Piaggio e 2115 su
3969 alla Siac. Si segnalano ancora i risultati del Fossati di Sestri (1845
voti nulli su 2448), della Ceramica Vaccari di Borzoli (342 su 350), dell’Odero
T.O. (152 su 258), del Cantiere Ansaldo di Sampierdarena (1840 su 2122). Il
fallimento della controffensiva politica fascista è evidente. La risposta dei
lavoratori non è la lotta aperta come nei mesi autunnali del 1943 e come a
gennaio, ma è altrettanto efficace perché colpisce i fascisti sul terreno della
battaglia per il consenso, sconfiggendo l’opzione collaborazionista.
E’ nella seconda metà di maggio che si
creano le condizioni per una nuova fase di lotta.
Gli obiettivi sono di carattere economico perché le condizioni di vita sono
nettamente peggiorate. In particolare è drammatica la situazione alimentare,
per l’esaurimento graduale delle scorte e per la difficoltà gravissima dei
rifornimenti. Si vive alla giornata, per di più nel terrore costante dei
bombardamenti che tra marzo e giugno si accaniscono sul ponente cittadino con
centinaia di morti e feriti. In diversi stabilimenti si torna a rivendicare
salario con modalità inedite: nessuna delegazione per le trattative, nessuna
elezione di rappresentanze per non esporre i compagni. Spesso a dar voce alle
rivendicazioni ci pensano le donne. Talvolta i dirigenti aziendali sono
chiamati a discutere nei piazzali e nei reparti: si parla lì e le voci dei
compagni provengono dalle seconde e dalle terze file, senza nome e senza faccia.
Anche ai dirigenti va bene così: meglio non vedere e non sapere chi parla a
nome di tutti. Il fermento è così alto che il prefetto Basile decide di fare un
giro nelle fabbriche tra il 19 e il 20 di maggio, proprio nei giorni della
strage del Turchino. Basile minaccia e blandisce e sopporta anche fischi e
insulti che gli piovono addosso dagli operai, specie al Meccanico di
Sampierdarena.
Il 1° giugno è sciopero alla San Giorgio,
al Fossati e al Cantiere. Nel pomeriggio all’Allestimento Navi la polizia spara
e rimane ucciso un operaio. Il giorno dopo, venerdì 2, gli scioperi dilagano da
Sestri a tutta la Valpolcevera. Nel pomeriggio si fermano le fabbriche di
Sampierdarena e di Cornigliano: Meccanico, Carpenteria, Elettrotecnico e Siac.
Domenica 4 giugno, giorno della liberazione di Roma, un pesante bombardamento
sulla bassa Valpolcevera causa cento morti e centocinquanta feriti. Cresce
ancora la rabbia e gli scioperi proseguono per tutta la settimana successiva,
incoraggiati dalla notizia dello sbarco alleato in Normandia, dal giorno 7 di
dominio pubblico. E’ di nuovo un’onda di piena, come a dicembre e come a
gennaio. Fascisti e tedeschi non possono non cogliere il collegamento tra le
agitazioni e la nuova fase del conflitto, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma
e lo sbarco in Normandia. Venerdì 9 lo sciopero si è ormai diffuso in tutti gli
stabilimenti e Basile decide di porvi fine, ordinando la serrata di sette
fabbriche. Il testo del comunicato, apparso sui giornali cittadini sabato 10 è
chiarissimo. Ho cercato – scrive in sintesi Basile – di spiegarvi come stanno
le cose, ma non avete voluto ascoltarmi e ieri, di nuovo, avete scioperato
tutti quanti. Perciò ordino la serrata sino a martedì prossimo di Siac,
Piaggio, San Giorgio, Cantieri Navali, Carpenteria, Ferriere Bruzzo, Ceramica
Vaccari. Vi avverto che questa è la prima e la più blanda delle misure che sto
preparando per voi. Ad ulteriore dimostrazione che si sta facendo sul serio, la
mattina del 10 poliziotti guidati dal questore in persona, insieme ad un gruppo
di SS, irrompono al Meccanico di Sampierdarena, durante uno sciopero di
reparto. E’ un’azione molto rapida: il reparto in sciopero viene isolato e
sessantaquattro operai sono prelevati, caricati sui camion e portati via.
Operazioni di questo tipo sono già state effettuate per lavori di cui i
tedeschi hanno urgenza, ma non hanno mai interessato operai prelevati in
fabbrica, bensì gente presa a caso per strada.
Nonostante tutti questi segnali, nessuno
all’interno della Resistenza immagina quello che succederà di lì a pochi
giorni, nessuno mette in conto la possibilità di una deportazione di massa.
Lunedì 12 nelle fabbriche ancora aperte il lavoro riprende regolarmente. Lo
stesso succede mercoledì 14 nelle fabbriche sottoposte a serrata. La giornata
del 15 trascorre tranquillamente. Venerdì 16, nella tarda mattinata di una
giornata caldissima, scatta la rappresaglia guidata dalle forze di occupazione
tedesca con la partecipazione di polizia e brigate nere. L’azione è condotta
con tecnica militare e ha caratteristiche di un’adeguata preparazione. Innanzi
tutto nella scelta degli obiettivi. Per la Siac l’operazione è abbastanza
semplice, perché lo stabilimento è relativamente isolato, circondato da colline
e i binari della ferrovia hanno diramazioni che arrivano sino alla fabbrica.
Più complessa è invece l’operazione per Cantiere, San Giorgio e Piaggio, perché
gli stabilimenti sono situati nel contesto urbano di Sestri e hanno parecchie
vie di uscita. La contiguità delle tre fabbriche e uno straordinario
dispiegamento di forze favoriscono tuttavia il successo, con l’effetto
aggiuntivo, probabilmente cercato, di coinvolgere e terrorizzare tutta Sestri.
I fatti successivi sono noti e confermati da numerose testimonianze: i
lavoratori sono radunati nei piazzali, selezionati, caricati a centinaia su
autobus e camion così come sono, in tuta, con gli zoccoli, molti in canottiera.
Nella rete cadono in circa millecinquecento, successivamente portati ai punti
di concentramento a Campi e a Rivarolo e caricati come bestie su carri
ferroviari con destinazione Mauthausen.
Due giorni dopo, il 18 giugno, escono
sulla stampa cittadina due comunicati, uno del comando tedesco, l’altro,
truculento e delirante, di Basile che non vuole perdere l’occasione di godersi
la festa: “Vi avevo messo sull’avvertita…Non avete voluto ascoltarmi…Oggi più
di uno di voi si pente amarissimamente di essersi lasciato sedurre ed
illudere…”. Le parole di Basile tradiscono però anche impotenza e paura:
“…Intanto quei pendagli da forca che si gabellano per comunisti, si appostano
all’angolo dei carruggi o all’uscita di un rifugio al cessato allarme, per
colpire alla schiena uno dei nostri, borghese o militare… Meditate bene quanto
sto per dire: la pazienza ha un limite…”. I “pendagli da forca” l’indomani
colpiranno duro, questa volta molto in alto. Dopo essere sfuggito ad un primo
attentato proprio il 16 giugno in Via Garibaldi, vicino a Palazzo Tursi, il 19
a Savignone è liquidato a colpi di mitra il generale della GNR Silvio Parodi. Il
25 giugno esplode una bomba in un bar di Via del Campo frequentato
esclusivamente da soldati tedeschi: i morti sono sei e diversi i feriti. Il 30
giugno a Pedemonte sono colpiti a morte quattro ufficiali tedeschi. Il 2 luglio
in Piazza Aprosio a Sestri è la volta di un sottufficiale di P.S.
Tornando alla gigantesca retata del 16
giugno è necessario ricordare che questa si svolge praticamente senza
resistenze, salvo qualche isolato episodio di protesta di donne a Sestri. Le
testimonianze raccolte da Clara Causa
ricordano un gesto disperato del partigiano Piva che nel Cantiere Navale riesce
a sparare qualche colpo di pistola contro i tedeschi. Altre testimonianze
raccolte da Manlio Callegari
citano episodi di azioni individuali di aiuto per la fuga dei deportati. Nel
complesso tuttavia l’operazione si svolge nel disarmo completo
dell’organizzazione della Resistenza. La domanda obbligata riguarda la
possibilità di prevedere, evitare o contrastare la deportazione del 16 giugno. Prevedere
forse si, considerando premesse e segni premonitori. Evitare probabilmente no,
considerando la sproporzione delle forze in campo in quel momento. Contrastare,
attenuando le conseguenze, sicuramente si. Ad avvalorare questa tesi è proprio
la testimonianza di Remo Scappini, all’epoca responsabile del Partito
Comunista, uno dei capi della Resistenza genovese:
“Il rastrellamento rivelò serie deficienze anche del nostro partito, poiché
dimostrò che le squadre operaie di difesa avevano trascurato la sorveglianza
nelle fabbriche. Certo, di fronte ai mitra puntati non sarebbe stato possibile
opporre resistenza, ma se la sorveglianza avesse funzionato e se ci fosse stato
un minimo di reazione, si sarebbe creato scompiglio facilitando così la fuga di
molti operai, come avvenne in altre circostanze a Genova, a Torino e altrove.”
Ora è possibile trarre una prima
conclusione storiografica. Il 16 giugno chiude drammaticamente a Genova una
fase della Resistenza contrassegnata dalla centralità delle grandi lotte
operaie.
Ci saranno altri scioperi alla fine di ottobre del 1944, contro la minaccia di
nuove deportazioni, a novembre contro la diminuzione della razione di pane, e
infine nei mesi della mobilitazione pre-insurrezionale.
La fabbrica però non è e non potrà più essere il centro dell’iniziativa
politica antifascista e antitedesca. Sono i lavoratori per primi a
comprenderlo, sino a trarre coerenti conclusioni con il rifiuto (di fatto)
dell’indicazione del Partito Comunista e del CLN dello sciopero generale
insurrezionale nell’aprile 1945. La mancata effettuazione dello sciopero
generale non impedirà, come è noto, il pieno successo dell’insurrezione
“modello” di Genova, con il contributo determinante della classe operaia,
specie a Sestri e nel ponente industriale della città.
A questo proposito Giorgio Bocca ha scritto – efficacemente, anche se
impropriamente – che a Genova e in Liguria la lotta di Liberazione ebbe le
caratteristiche di una “rivincita operaia”.
Il secondo problema storiografico
collegato al 16 giugno riguarda il peso che nella vicenda ebbe l’esigenza di
reclutare lavoro forzato per l’economia di guerra tedesca. Quella della
deportazione di manodopera è una storia lunga che inizia dopo l’8 settembre con
l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord e della città di Genova. Già nel
novembre 1943 l’amministratore delegato dell’Ansaldo Agostino Rocca riesce ad
impedire la deportazione di novecento lavoratori destinati alla costruzione di
sommergibili a Kiel.
Il problema si ripresenta alla fine di gennaio del 1944, quando Rocca viene a
sapere dell’esistenza di un piano tedesco di prelievo di circa trentamila
lavoratori genovesi, tremila dei quali dovrebbero essere messi a disposizione
dall’Ansaldo. Utilizzando i buoni rapporti con Leyers, ingegnere e generale di
corpo d’armata plenipotenziario per l’Italia del Nord di Albert Speer, ministro
per gli armamenti e la produzione bellica, Rocca riesce nuovamente ad opporsi
al trasferimento, offrendo in cambio un aumento di produzione nei propri
stabilimenti. Rocca capisce e quindi gioca sul fatto che le pressioni maggiori
per il trasferimento di manodopera in Germania vengono dagli industriali
tedeschi, più che dalle autorità militari in Italia.
La situazione precipita alla fine di marzo, allorché vengono
inviate agli operai dell’Ansaldo mille cartoline precetto che equivalgono ad un
ordine di partenza. Rocca fa ritirare le cartoline e per questo rischia
l’arresto da parte delle SS. Alla fine a partire sono solo un centinaio di
operai, anziché i tremila in un primo tempo previsti. Un nuovo tentativo
tedesco viene effettuato un mese dopo con la richiesta di duemila operai
dell’Ansaldo Fossati: il numero è stabilito sulla base della quantità di
disoccupati che in quel momento risultano percepire sussidi totali o parziali. Questa
sembra la volta buona, perché vengono fissate sia la data della deportazione,
il 10 maggio, sia addirittura le procedure di trasferimento, con l’avvertenza
tedesca che “le maestranze partiranno come si trovano sul posto di lavoro”. Alla
fine salta anche l’appuntamento del 10 maggio, per ostacoli frapposti dalla
stessa amministrazione di Salò. Le autorità germaniche preferiscono rinviare
l’operazione ad un momento più favorevole che arriverà presto, il 16 giugno,
appunto. Quando non saranno possibili obiezioni in presenza di
“…una misura di polizia (reazione ad uno
sciopero), contro la quale la considerazione costi – profitti – come nel caso
delle richieste di aziende di operai per la produzione bellica nel Reich – non
avrebbero potuto prevalere.”
Sull’intera vicenda della mancata deportazione del Fossati osserva Manlio
Calegari:
“L’impreparazione, lo stupore,
la disperazione di quel giorno (16 giugno, ndr)
deriveranno anche dal fatto che in città nulla era trapelato del
progetto del 10 maggio. Il fatto che di nulla il CLN avesse avuto sentore,
porterebbe a pensare che localmente l’attenzione a simili soluzioni fosse
scarsa, tanto esse apparivano irrealistiche. Non ci si aspettava ancora un anno
di guerra, né che la Germania mettesse in opera il massiccio trasferimento di
risorse materiali e umane che aveva più volte annunciato e tentato.”
Dal punto di vista tedesco per altro le
complicate vicende genovesi sono emblematiche di un più generale fallimento, se
rapportato agli obiettivi iniziali di oltre un milione di lavoratori italiani
al servizio dell’industria bellica germanica. Fallisce tanto il reclutamento di
volontari attuato con la propaganda, quanto l’arruolamento coatto, sia civile,
sia militare.
“Se esaminiamo le cifre – osserva
ancora Klinkhammer –
nel 1944 da gennaio
a dicembre gli operai dell’industria arruolati furono complessivamente 65.954.
Rispetto ai progetti di Sauckel dell’inizio dell’anno, che prevedevano il
rastrellamento di un milione e mezzo di lavoratori, e più ancora rispetto alla
dichiarazione di Hitler nel marzo, secondo la quale dall’Italia se ne potevano
ricavare anche tre milioni, il numero dei lavoratori effettivamente “arruolati”
testimonia con tutta chiarezza il fallimento dell’organizzazione Sauckel. Anche
di fronte a circa 450.000 militari internati, che in agosto furono trasformati
d’autorità in lavoratori civili, e che per altro lavoravano già in precedenza
nell’industria degli armamenti, risulta evidente la scarsa importanza che
ebbero per l’industria bellica tedesca i nuovi arruolamenti.”
In altri termini il reclutamento di lavoratori italiani da parte dell’occupante
tedesco si ridusse a quello che in effetti fu il 16 giugno a Sestri: pura
operazione di polizia, di repressione della protesta, di umiliazione e di annichilimento
di un’intera comunità.
In conclusione una riflessione su un
ultimo problema storiografico legato al 16 giugno. Colpisce la sproporzione tra
il peso che quella tragedia ebbe nella storia della Resistenza genovese e che
tuttora ha nella memoria collettiva dei sestresi, tramandata com’è di
generazione in generazione, e l’attenzione tutto sommato scarsa che il 16
giugno ha avuto e nella storiografia locale (salvo le eccezioni più volte
citate), e ancor più nella storiografia nazionale della Resistenza e, più in
generale, del periodo 1943 – 1945. Una maggiore attenzione deve essere
sollecitata ed anche pretesa. Il modo giusto per farlo, a livello locale, è
però quello di aiutare la ripresa della ricerca mettendo a disposizione una
testimonianza come quella di Orlando Bianconi che, senza nulla togliere ad
altre testimonianze,
ha il pregio di essere stata prodotta (quasi) contemporaneamente allo
svolgimento di una difficile vicenda di deportazione.
I diari possono essere letti da due punti
di vista. Il primo riguarda la terribile vicenda di un uomo non più giovane
(quarantatre anni al momento della deportazione) che improvvisamente, in una “…giornata d’estate...” in cui “…nulla fa presagire quanto sta per
accadere…” deve subire una violenza cieca che lo costringe ad abbandonare
tutto, lavoro, casa, famiglia, affetti: “ore
19 partenza, lungo la linea numerose persone, tra cui donne e fanciulli
piangenti, salutano noi e maledicono loro…”. Lo stile è asciutto,
essenziale, ma nulla è dimenticato: un gesto di generosità (“…a Ronco Scrivia una ragazza mi offre tutto
il denaro del suo borsellino, ringrazio il suo buon cuore, ma cosa farne?”),
il pensiero della fuga (“A tratti odo
come se il predellino del carro urtasse in un mucchio di sabbia, ma comprendo cos’è
il rumore: è la caduta dei fuggitivi…Sono avvilito per non poter essere anch’io
tra loro, mi consola il pensiero che almeno qualcuno riesca a fuggire.”).
Poi l’arrivo, con il terrore di una scoperta: “…riesco a leggere il nome della stazione d’arrivo: Mauthausen.
Comprendo come un fulmine…ricordo il terribile campo dove durante la guerra
1914 – 18 perirono migliaia di prigionieri.”
E ancora il freddo, la fame, i
maltrattamenti gratuiti (“…come se si
fosse una mandria di bestie...”), il disagio (“…bisogna arrangiarsi, in tre su un pagliericcio…”), soprattutto
l’incertezza (“L’argomento principale è
come finiremo, ci manderanno al lavoro o ci terranno lì a far la vita del
campo?”). Con l’incertezza arriva la paura di ammalarsi (“Per quanto può durare a fare una vita
simile un individuo? Poco, perché appena si ammala per lui c’è il forno
crematorio…”), di prendere botte (“…schiaffi
e pedate, per gusto, basta non togliersi il berretto quando passa sia un
soldato che un ufficiale, anche a una certa distanza, lavorando o no…”),
soprattutto di non rivedere più i propri cari (“…quando sono a letto penso a mia moglie e al mio bimbo Severino, che
chissà quando e se li rivedrò…”).
La seconda chiave di lettura dei diari
riguarda l’operaio specializzato elettricista Orlando Bianconi, entrato alla
Piaggio di Sestri perché “…è una delle
poche fabbriche che non costringeva i suoi dipendenti all’iscrizione
obbligatoria al Partito Nazionale Fascista”. “Era un libero pensatore – osserva
il figlio Severino – anche dopo la
Liberazione Orlando continuò ad esserlo, senza mai iscriversi ad alcun partito”.
La vena libertaria si sposa con il forte attaccamento al lavoro e con
l’orgoglio di appartenere ad una realtà culturalmente più avanzata: “…si credono una razza eletta…Vale più un
semplice manovale di noi che un capo di loro. Un lavoro che in Italia si
impiega un giorno per farlo bene, qui ne occorrono tre per farlo male…Conoscono
solo il lavoro, mangiare, dormire e avere figli. Loro vivono per lavorare,
mentre noi lavoriamo per vivere”. E’ grazie al proprio mestiere che Orlando
riesce a migliorare un poco la propria condizione di deportato. Si dà da fare e
nel tempo libero ripara radio, facendosi così apprezzare dagli austriaci. Una
volta accettato, Orlando scopre che anche tra i tedeschi ci sono “…molte brave persone…” e che tra i suoi
compagni di lavoro c’è chi come lui odia fascismo e nazismo (“…Eric Streif è un antinazista, ci offre
sempre da fumare e mai un rimprovero per nessun motivo. Comprende che siamo vittime
di un partito e forzati a fare un lavoro non nostro, perciò quello che facciamo
è fin troppo…”). Quando finalmente arriva il giorno della libertà, Orlando
è lapidario, quasi a trattenere un’emozione inesprimibile, troppo grande per
poter essere raccontata con più di dieci parole: “4 maggio 1945. Esco, appena fuori spunta la prima macchina americana.
Sono le 8,30.”
Con la sua sensibile (e ruvida)
personalità Orlando Bianconi narra se stesso e, forse senza rendersene conto,
anche la sua classe sociale. L’operaio “medio” genovese è infatti adulto,
istruito, ad elevata qualificazione professionale. Mestiere, orgoglio
professionale, coscienza fiera, indipendenza intellettuale (che si sia “liberi
pensatori” o militanti di partito poco importa): questi sono i tratti molto
nitidi di un soggetto sociale forte, capace di esprimere autonomamente valori e
culture. Da questo punto di vista la Resistenza genovese è stata veramente una
straordinaria “rivincita operaia”.
Sestri,
dicembre 2008 Paolo Arvati