il problema attuale non è più la lotta della democrazia contro il fascismo ma quello del fascismo nella democrazia (G. Galletta)

Amicus Plato, sed magis amica veritas



domenica 28 ottobre 2012

Per un Software Libero in un Libero Stato


"Il “Software Libero” è una questione di libertà, non di prezzo. Per capire il concetto, bisognerebbe pensare alla “libertà di parola” e non alla “birra gratis”. (NdT: il termine “free” in inglese significa sia gratuito che libero)."

Con questo paradigma in una società dove la dipendenza dalla robotica, e dalla computerizzazione è alla base di processi produttivi, della gestione della pubblica amministrazione e della supervisione di delicati interventi in campo sanitario, possiamo comprendere quanto viene delegato a “scatole nere” (software proprietario) di cui non conosciamo il contenuto e su cui non c’è comunque possibilità di intervenire in caso o di necessità o più semplicemente se le nostre esigenze diventano altre e vorremmo personalizzare ai nostri bisogni il software stesso.Non a caso alcuni di questi prodotti sono di “proprietà” di multinazionali che in un circolo vizioso arrivano a condizionare l’hardware stesso sul quale viene installato in un circolo vizioso di consumo e dipendenza.

L’uso del software libero quindi, non è e non vuole essere solo un utilizzo di software gratuito ma anche un impegno a far si che i nostri saperi uniti a quelli degli altri, contestualizzato ai nostri bisogni diventi una risposta sana, democratica e condivisa dando la possibilità di crescere a culturalmente e tecnicamente ad una nuova generazione di informatici . 

Richard Stallman è stato tra i primi a confrontarsi su queste tematiche e il valore etico che scaturisce dal suo operato è un patrimonio gia oggi condiviso a livello planetario dalle comunità che sviluppano e mettono in rete software libero. Se la filosofia parte dai propri bisogni è pur vero che con questa logica anche chi non ha la possibilità di acquistare software proprietario, e pensiamo al sud del mondo, quello libero può non solo scaricarlo e utilizzarlo, ma diventare protagonista di un suo ulteriore sviluppo richiudendo la forbice tra chi ha e chi non ha le possibilità . 

La massificazione del PC ha fortemente spinto verso una induzione dei bisogni da parte di chi ha monopolizzato il mercato, e le recenti scene di idolatria verso oggetti come l’iphone 5 è una resa culturale ancor prima che di mercato. L’adozione del software libero rappresenta infatti una alternativa alla cultura del tutto servito e tutto ignoto ed una gestione democratica dei “saperi”.

per saperne di più :

domenica 14 ottobre 2012

E’ trascorso un anno dal 15 ottobre 2011 e un secolo politico da quello stesso giorno


Un anno fa si chiudeva una delle pagine più buie della storia dei movimenti e della sinistra italiana. Fummo più di 300mila a Roma, la manifestazione più numerosa delle centinaia di manifestazioni che in tutto il mondo misuravano una risposta ad una crisi voluta dai poteri forti dell’economia che attraverso l’FMI e BCE dettavano le condizioni più pesanti per i ceti e le categorie più deboli in Italia, in Europa e nel resto del mondo.

La nostra crisi poi, aveva la sua peculiarità della contemporanea destrutturazione dello Stato ad opera della destra berlusconiana, a colpi di voti di “fiducia” e leggi at personam o conflitti di interessi mai risolti.
Per queste ragioni, la manifestazione degli “indignados” italiani aveva una valenza in più e un obbiettivo neanche troppo celato, di far cadere il governo Berlusconi con l’occupazione politica e pacifica permanente di quella piazza San Giovanni simbolo dei più alti momenti di aggregazione di massa della sinistra e del movimento dei lavoratori italiani.

Da quella Piazza San Giovanni sarebbe dovuto partire il segnale per la moltiplicazione delle piazze “indignate” a Genova, a Pisa, in ogni luogo dove la crisi faceva sentire il proprio peso , la parola d’ordine sarebbe stato il “mandare a casa” il piduista di Arcore con tutto il suo governo per aprire alla possibilità di un Governo in grado di dare risposte a chi la crisi l’aveva già scontata in termini di disoccupazione di precarizzazione del lavoro e della vita.

Con queste premesse non c’è da meravigliarsi su quelli che sono stati gli sviluppi della giornata. Il potere delle banche, degli speculatori finanziari e di chi gli reggeva il gioco manovrando nelle “stanze del potere” , non poteva permettere che Berlusconi cadesse per volontà popolare, e, gli scontri, le provocazioni, i danneggiamenti altro non volevano essere che la giusta strategia per impedire che quel movimento, che non era violento ma determinato a fare sentire la propria voce, non potesse arrivare e restare a piazza San Giovanni.

Non è casuale che, dopo relativamente pochi giorni, Berlusconi venga dimesso dalla BCE per essere sostituito dall’”immagine” pulita di una finanza in doppio petto con uno schieramento parlamentare ben lieto di perpetrare la propria autoreferenzialità e massacrare socialmente tutti i soggetti deboli e quelli produttivi di questo paese, nell ’evidente tentativo, purtroppo sin qui riuscito, di ridurre sempre più larghe masse di italiani in una condizione di povertà ricattabile dai grandi gruppi industriali e finanziari.
Art. 18, pensioni, scuola, sanità…fino a colpire invalidi e disabili.

Se non ha meravigliato la capacità di reazione da parte del “potere” resto, ad un anno di distanza, attonito rispetto a quello che non c’è mai stato: un chiarimento, un confronto, una valutazione complessiva tra quelle forze della sinistra, del sindacato, dell’associazionismo e dei movimenti che furono protagoniste nell’ organizzazione di quella giornata di lotta a Roma.

Il 16 tutti si rifugiarono nel proprio ambito spalancando così le porte alla vera reazione del potere delle banche e della finanza internazionale. Altro che i caroselli e gli autoblindo scatenati in piazza San Giovanni!
Il massacro sociale indiscriminato sarebbe stato concretizzato con il governo “tecnico” ed il golpe silente con l’inserimento nella carta costituzionale del pareggio di bilancio.

Se il 15 ottobre 2011 il movimento ha dimostrato la propria capacità di mobilitazione e di motivazione, quello stesso giorno una consistente fetta della sinistra dimostrò una inadeguatezza a rappresentare quello stesso movimento, e una incapacità nel denunciare quelli che furono errori politici che costarono il fallimento di quella giornata.
Loris





Da Pisa "Rebeldia" e il Municipio dei Beni Comuni

Pisa, 13 ottobre - E' nato a Pisa il Municipio dei Beni Comuni, e lo fa portando in piazza un corteo festoso e variopinto, con l'obiettivo di liberare spazi sociali per la città e di denunciare le politiche predatorie di una certa economia ed una certa politica.
Obiettivo della mobilitazione un immobile di proprietà di una multinazionale da anni abbandonato, oltre 10 mila metri quadrati sui quali sorgeva l'ex Colorificio Toscano.
Il Colorificio Toscano è uno dei simboli della storia industriale della città, oggi in stato di totale abbandono dopo la chiusura nel 2008 decisa dall'attuale proprietà, il gruppo J Colors. Con il licenziamento degli ultimi addetti, la multinazionale ha sancito la fine di un'esperienza che a Pisa, per quasi cento anni, ha significato una produzione d'avanguardia e lavoro per centinaia di persone. 


clicca sull'immagine per leggere l'intero documento in pdf


Appello nazionale


Sosteniamo il Municipio dei Beni Comuni!
 
A Pisa il 13 ottobre il Municipio dei Beni Comuni, con la partecipazione di associazioni, attivisti, studenti e cittadini a cui ci sentiamo vicini, si è mobilitata con l'obiettivo di liberare un nuovo spazio per coltivare democrazia e diritti.
La riapertura alla città dell'ex Colorificio Toscano potrebbe segnare il recupero di un bene produttivo che una multinazionale aveva acquisito e poi dismesso, passando in quindici anni da quasi 100 dipendenti a 13 operai, licenziati infine nel 2008 per delocalizzare. Attraverso l'azione collettiva questi magazzini abbandonati potrebbero divenire bene comune, crocevia di attività culturali e scambi di economia solidale, arti e mestieri, sport e socialità, pace e solidarietà tra i popoli.
 
Sosteniamo coloro che hanno aderito a questo movimento e costruiscono ora nuove reciprocità partecipando alla gestione del Municipio dei Beni Comuni, che sono beni relazionali, definibili solo dalla comunità che li tutela. Seguiremo con attenzione e simpatia questo percorso che si nutre della volontà degli individui di far funzionare nuove istituzioni, basate su un capitale di relazioni piuttosto che su quello finanziario. E' questa l'innovazione che può traghettarci fuori dalla crisi senza aspettare il traino della crescita economica, scegliendo la rotta di un paradigma alternativo.
 
Chiediamo agli enti locali, a partire dalla Regione Toscana, di rispettare e sostenere per quanto possibile questa pratica di cittadinanza, che avrà l'obiettivo di ospitare anche attività e idee delle nostre organizzazioni. La modalità aperta, pacifica e trasparente con cui è stato riaperto questo percorso segna il passo di un nuovo tempo e l'affermarsi di nuove comunità, con cui le istituzioni tradizionali devono imparare a dialogare alla luce del sole.
 
Don Andrea Gallo, Danilo Zolo, Sandro Medici, Vittorio Agnoletto, Luisa Morgantini, Giuliano Giuliani, Haidi Gaggio Giuliani, Aldo Zanchetta, Alberto Castagnola, Paolo Cacciari, Andrea Baranes; Alberto Zoratti e Monica di Sisto (Fairwatch), Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova), Patrizia Sentinelli e Roberto Musacchio (Altramente), Maurizio Gubbiotti (Legambiente), Laura Greco (A Sud), Gianluca Carmosino (Comune.info), Annalisa Sacco (Associazione La Strada), Riccardo Troisi (Reorient), Ciro Pesacane (Forum ambientalista), Francuccio Gesualdi (Centro Nuovo Modello di Sviluppo), Marco Bersani (Attac Italia), Michele Rovere (La Talpa e l'Orologio), Farshid Nourai (Associazione per la pace), Martina Pignatti Morano (Un Ponte Per…), Mariano Mingarelli (Associazione di amicizia italo-palestinese), Don Nandino Capovilla (Pax Christi), Pietro Raitano (direttore di Altreconomia), Luca Martinelli (redattore di Altreconomia), Re:Common, Fratelli dell'Uomo, Comitato Acqua Pubblica Pisa

martedì 9 ottobre 2012

Hasta La Victoria Siempre (9 ottobre 1967)




Il seguente pezzo è stato estratto dalla biografia di Che Guevara curata nel sito "Antonio Gramsci" (www.antoniogramsci.com) (http://www.antoniogramsci.com/angelamolteni/che_biografia04.htm#29)

La Morte


"Ernesto Che Guevara viene fatto prigioniero l'8 ottobre del 1967 è portato nella scuola di La Higuera in cui rimane fino al 9 mattina; venne informato dell'arresto il Presidente della Bolivia, che alle nove di sera si reca dall'ambasciatore degli Stati Uniti a La Paz e alla sua presenza telefona a Washington: la risposta fu che il Che doveva morire e subito, perché costituiva un grave pericolo per gli interessi degli Stati Uniti e della Bolivia. I motivi? L'opinione pubblica internazionale si sarebbe potuta mobilitare, gruppi di comunisti fanatici avrebbero potuto cercare di liberarlo e la Bolivia si sarebbe agitata. Era preferibile la sua morte, la sua distruzione totale. Un duro colpo per Cuba e per i movimenti rivoluzionari dell'America Latina, dissero! Decisero quindi di ucciderlo. Félix Ramos era un traditore, di origine cubana, agente della Cia, e partecipò all'uccisione del Che. I testimoni dissero che quando cercarono d'interrogare il Che usando la violenza, fu proprio lui che gli strappò parte della barba. Il Comandante, come suo solito, si ribellò; gli legarono le mani prima davanti e poi dietro, e il Che sputò in faccia proprio a Félix Ramos. In una delle foto che gli fecero prima di ucciderlo, si vede chiaramente che una parte della sua famosa barba gli era stata strappata. Gli spararono all'una e dieci del giorno 9. 

Nel pomeriggio il cadavere venne trasportato a Valle Grande nell'ospedale Señor de Malta, dove gli tagliarono le mani per permettere ai periti argentini di fare le prove dattiloscopiche. Gli agenti della Cia volevano tagliargli anche la bella testa per inviarla negli Stati Uniti, ma i medici di Valle Grande si opposero e il cadavere venne dapprima esposto a Valle Grande e poi sepolto in un luogo segreto, in una fossa comune, nei pressi dell'aeroporto di quella città. 


Nel ventesimo anniversario della sua morte i giovani boliviani gli hanno fatto omaggio a La Higuera e hanno scoperto un busto alla sua memoria. Fra di loro c'era anche il figlio del militare che dirigeva la compagnia che aveva catturato il Che. Nel luogo dove l'avevano barbaramente ucciso, dentro e fuori dalla scuola, i contadini hanno collocato anche alcune pietre su cui accendono candele e mettono fiori. Nell'ospedale, uno dei lavoratori più anziani aveva conservato tutti gli strumenti con cui avevano fatto l'autopsia al Che: alcuni di questi oggetti si trovano oggi nel museo di Santa Clara a lui dedicato, e altri nel museo della Rivoluzione a La Habana.
I boliviani hanno donato ai cubani anche la barella con cui il Che venne portato da La Higuera a Valle Grande. La barella era stata conservata dalla stessa persona che lo aveva accolto all'ospedale.


In seguito, girò la voce che lo avessero cremato e disperse le ceneri, ma non era vero: la scomparsa del cadavere del Comandante ha accresciuto negli anni il mistero attorno alla figura del grande rivoluzionario. La località della sepoltura è rimasta sconosciuta fino a luglio del 1997, quando un gruppo di ricercatori ha identificato il cranio e alcune ossa del Comandante, sepolto in una fossa comune assieme a sette compañeros, a Valle Grande, circa 150 miglia a sud-est di Santa Cruz. Un ritrovamento reso possibile da Mario Vergas Salinas, un generale in pensione dell'esercito boliviano, che nel 1995 ha scelto di porre fine al silenzio imposto a riguardo della sepoltura del Che. E reso possibile anche grazie lalla testimonianza di Gustavo Villoldo, l'uomo che inseguì e catturò Guevara in Bolivia, e che ne ordinò la sepoltura segreta per evitare che i resti diventassero un monumento alla rivoluzione comunista cubana. "









lunedì 8 ottobre 2012

Acciaio:lavoro, ambiente, salute.


...parto un po da lontano, ma forse diventa utile per comprendere.
Uno dei primi stabilimenti a ciclo integrato fu quello di Piombino. Era il 1865, le maestranze impiegate erano per il 50% detenuti. Quando passò di proprietà al Credito immobiliare italiano oltre alla quota di detenuti risultavano iscritti tra le maestranze adolescenti tra gli 11 e i 15 anni. La strada di congiunzione tra Portovecchio e Piombino fu costruita solo in un secondo tempo come se l'impianto fosse una cosa a se, slegato dalla città, una cosa sporca, forse per i ritmi di lavoro un inferno!

La lavorazione dei materiali ferrosi e la produzione dell'acciaio è nella sua evidenza un ciclo che impone serie considerazioni sull'impatto ambientale, aver vissuto per tutta la vita nelle vicinanze di un altro stabilimento a ciclo integrato come quello di Genova Cornigliano sicuramente da qualche titolo per testimoniare come vengono condizionate le vite di chi a ridosso di quello stabilimento viveva.
Vedere le persiane fasciate dai sacchetti neri della spazzatura nel tentativo di arginare una coabitazione coatta anche dentro le mure domestiche con le polveri prodotte dalle lavorazioni, da solo una minima idea di quale sia stato l'impatto di questo impianto.

Lo stabilimento di Cornigliano di fatto prese forma nel dopoguerra essendo stato in parte smantellato dai tedeschi durante l'occupazione. Materialmente fu lo “Stato” attraverso l' IRI a finanziare gli impianti che cambiavano i nomi a secondo dell'assetto societario, ma, anche a fronte di una politica nazionale sulla siderurgia si restava nelll'ambito delle “Partecipazioni Statali”, che al suo interno aveva anche società che progettavano e manutenevano gli impianti stessi.

Lo Stato era quindi parte attiva in quelle che erano le decisioni che riguardavano gli standard qualitativi degli impianti che venivano messi in essere, a Genova come a Taranto a Terni come a Bagnoli.

La politica delle dismissioni e gli spacchettamenti delle ex aziende a partecipazione statale tra la fine degli anni 80 e la fine dei 90 ha infine messo nelle mani dei privati quel che rimaneva della siderurgia italiana con annessi impianti, che come dimostra il caso Taranto sono polpette avvelenate che inevitabilmente avrebbero cortocircuitato con la questione ambientale e con il diritto alla salute di ogni cittadino.

Lo Stato quindi sapeva cosa veniva dato in mano ai privati, e i privati sapevano cosa acquistavano dallo Stato. Che nel passato i limiti ambientali fossero di manica più ampia è cosa nota, le conseguenze non hanno invece tempo, e l'immobilismo del “tiriamo a campare” non può più essere tollerato da alcun sia.

Se Genova, grazie ai comitati territoriali e alle “donne di Cornigliano” si è liberato del problema dell'area a caldo, attraverso la protesta e gli accordi tra Riva e le istituzioni, a livello nazionale il problema lo si è decentrato a Taranto ignorando colpevolmente il deterioramento ambientale e le incidenze negative sulla salute dei lavoratori e dei cittadini di Taranto.

Semplicistica sarebbe oggi la semplice chiusura degli impianti che sicuramente interromperebbe le fonti di inquinamento aprendo il problema occupazionale ma sopratutto compenserebbe la proprietà che dopo aver spremuto lavoratori e territorio sarebbe in grado di godersi i proventi ricavati dall'attività non rispondendo del danno sociale causato.


Credo che ci sia il know out per progettare e trasformare quegli impianti in impianti compatibili con la salute e l'ambiente. Credo che prima che il percorso diventi senza ritorno la strada da intraprendere sia quella proprio di attivare queste competenze, ancor prima di decreti che cerchino di salvare improbabili profitti. Forse potrebbe essere un modo anche per rilanciare il lavoro e la produzione dell'acciaio lasciato colpevolmente ai paesi così detti emergenti ma sicuramente più inquinanti e senza diritti.
Chi ha causato questo disastro paghi materialmente sia la bonifica sia la riconversione degli impianti, e le responsabilità penali per il disastro ambientale siano perseguite fino in fondo sia su chi materialmente inquinava sia su chi politicamente avvallava.
Loris


giovedì 4 ottobre 2012

Sentenza N° 38085, quelli che cadono dal pero


Dopo 11 anni di falsità, ingiurie, derisioni, con le motivazioni della sentenza viene affermata una verità che per alcuni ,però, non è mai mutata da quel luglio 2001. Molti sono i commenti che si sprecano in ogni salsa e oggi parlano di "democrazia sospesa" di "traditori" , di violenza premeditata, tortura, di vendetta da parte di un corpo dello stato. Alcuni oggi si spingono sino a ricordare chi era in "cabina di regia" a forte San Giuliano (Fini) sede operativa del comando dei carabinieri. Oggi c'è chi si meraviglia di funzionari restati ai loro posti e promossi nelle funzioni sino all'ultimo atto pur essendo inquisiti per reati di indubbia gravità. Quelli che oggi cadono dal pero, oggi dovrebbero chiedere che sia istruita una commissione d'inchiesta sui fatti del G8. altri l'hanno fatto remando costantemente contro corrente e trovando nella consociazione politica il muro all'accertamento delle responsabilità politiche di quei giorni. Oggi, a fronte di tutti gli atti e le motivazioni della Cassazione , anche per chi ha beneficiato della prescrizione, la presenza all'interno di organi dello Stato risulta intollerabile con la decenza democratica.
Più di una volta mi sono sentito dire, "e...basta..." "e...su che esagerazioni!" e da uomini di legge affermare che la sospensione della democrazia e dei diritti era un'esagerazione . Ci sono voluti 11 anni per una verità giuridica, sicuramente non ne basteranno 50 perchè una cultura del diritto possa determinare che lo stato e i suoi apparati per il ruolo che ricopre non può congedare democrazia diritti e morale per biechi calcoli politici.
Lascio alla lettura della sentenza ringraziando tutti coloro che in questi anni remando costantemente controcorrente ci hanno permesso di arrivare a questo risultato giuridico.Non lascio al mio giudizio e commento soggettivo e di parte, perchè rischierei di essere impreciso, rispetto a quanto nella sentenza è espresso in modo cristallino Volutamente le immagini per accedere ai link sono di poliziotti col viso celato dal casco. Anonimi come furono anonimi gli agenti che penetrarono all'interno della Diaz compiendo la "macelleria messicana".
Loris

ps. tra quelli che cascano dal pero inserisco a pieno titolo, anche coloro che , specialmente se si autodefiniscono di sinistra, parlando di piazza Alimonda puntualmente arrivano a fare questa considerazione  "... però aveva in mano un estintore..."



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