Fino al finire degli anni 60 il diritto alla salute sui posti di lavoro non trovava una adeguata cultura. Il concetto di pericolosità e di nocività era oggetto di eventuale contrattazione salariale, preferendo curare le conseguenze che non prevenire, scaricando poi di fatto sulla collettività i costi sociali degli infortuni e soprattutto di quelle che troveranno menzione nelle malattie professionali.
Semplificando il concetto : più pericoloso o nocivo era il lavoro e più uno guadagnava.
Con lo Statuto dei diritti dei lavoratori il salto culturale fu evidente e fu giustamente applicato il concetto che la salute non è monetizzabile. Affinchè questa enunciazione trovasse applicazione, ovviamente fu necessario legiferare affinchè fossero attuate tutte le misure che consentissero lavoro in sicurezza sia nella lavorazione sia a livello ambientale.
Voglio nuovamente sottolineare i due dati importanti del passaggio alla “non monetizzazione della salute: prevenzione e maggior sicurezza sul posto del lavoro e minori costi sociali con evidente miglioramento della qualità della vita. Personalmente penso che non fu solo una vittoria sindacale, ma fu soprattutto una scelta di civiltà.
L’articolo 1 della nostra Costituzione, fu il frutto di una mediazione e all’enunciato di una “Repubblica fondata sui lavoratori” (concetto che richiamava il socialismo reale) raccolse il consenso “Repubblica democratica fondata sul Lavoro”
Il lavoro quindi come elemento fondante del nostro Stato e della nostra società. Il lavoro che, mi verrebbe da pensare, travalica addirittura, ovviamente in positivo il concetto del diritto.
Nel 1995 a seguito delle dimissioni del primo governo Berlusconi abbiamo una parvenza di governo “tecnico” diretto da Lamberto Dini e, il ministro del lavoro e della previdenza sociale Tiziano Treu confezionerà in quel contesto il pacchetto di misure, trasformate nella legge 196/97 che dietro l’inganno del lavoro flessibile in realtà spalancherà le porte al dramma del lavoro precario.
Che sul lavoro si stava giocando una partita estremamente importante e sporca ne sono la riprova gli omicidi di D’Antona prima e Biagi successivamente, perché nel nostro paese a far accelerare i processi involutivi sono, con una tempestività inaudita, sempre intervenuti fattori, come la strategia della tensione e gli anni di piombo, che hanno tacitato sotto la cappa dell’attacco allo Stato, tutte le espressioni di dissenso dei ceti popolari e della grande maggioranza dei lavoratori.
Era fondamentale questa lunga premessa perché solo avendo coscienza del processo avvenuto si possono trovare risposte adeguate alla situazione presente.
E’ di pochi giorni fa l’intervento del segretario della CGIL Susanna Camusso all’assemblea dei delegati/e della CGIL, affrontando il tema della precarietà indica nella strada per il superamento due parametri: ridurre le modalità di assunzione (42) e far costare di più il lavoro precario ampliando le tutele.
L’idea del far costare di più il lavoro precario non è nuova: poco più di un anno fa Gianfranco Fini nel discorso di “Mirabello” sottolineò proprio questo concetto per dare dignità al “lavoro precario”. Non casualmente poco prima che la Camusso esprimesse il concetto nel discorso sulla “cura del lavoro”, forse in una pausa della pettinatura delle bambole, con più di un anno dal discorso di Fini il PD nella voce di Bersani si esprimeva nello stesso senso, come a dare il benestare o il nulla osta alla proposta.
Se riesco a comprendere la proposta fatta da Fini, comprendere senza condividerla, la proposta Bersani/Camusso la reputo assolutame inaccettabile e inconcepibile per la sua natura di monetizzazione del diritto al lavoro; la conferma dell’accettazione del concetto della precarizzazione della struttura stessa dello Stato.
La trovo inaccettabile proprio per quel concetto dell’aver “cura del lavoro” tante volte ripetuta nell’intervento ai delegati e delegate dalla Camusso.
E’ inaccettabile per quel danno sociale davanti gli occhi di tutti che è la negazione al futuro per intere generazioni. Inaccettabile perché vuol dire da parte del sindacato diventare sempre più un sindacato dei pensionati perché a queste generazioni senza “categorie sindacali” sarà negata sia la rappresentanza sia il potere contrattuale allargando sempre più la forbice tra chi produce e chi parassitariamente incamererà i profitti.
Al precariato non si può rispondere con una monetizzazione perché nel caso della salute la non monetizzazione è stata una conquista, sul precariato è stata una falla aperta per incapacità, inettitudine e sudditanza a componenti politiche che hanno dimostrato di avere più riguardo per le lobby industriali che non alle masse lavoratrici. Non si può andare a dire a un giovane la tua vita sarà una incertezza costante ma ti pagherò però un po di più. Anche il pagamento è incerto!
O il sindacato oggi fa una scelta autonoma,e intraprende una battaglia, anche dura per la cancellazione di tutta la legiferazione in tema di mercato del lavoro, o si ritroverà, e in parte già si ritrova, ad essere solo un sindacato dei pensionati ai quali potrà fornire qualche servizio, e, considerando i nuovi sviluppi in tema di pensioni, neanche con una base di iscritti troppo ampia.
Trovo indecorose le proposte di modificazione della nostra Costituzione. Modificare l'art. 41 o l'art. 118 (libertà di impresa) o l'inserimento del pareggio di bilancio, quando i "debiti pubblici" fuori controllo si chiamano evasione fiscale e banche. La Costituzione prima di ogni cosa va attuata, specialmente nel suo articolo 1.
Loris V.
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