IL Manifesto - Luigi Ferrajoli
Sul futuro della sinistra
Esiste in Italia un popolo di sinistra che raggiunge almeno il 10% dell’elettorato e che è privo di rappresentanza politica. E’ una cifra calcolata per difetto: il 7% dei voti gettati al vento dalle tre liste di sinistra – Rifondazione, Sinistra e Libertà e il Partito comunista di Ferrando – una parte rilevante degli astensionisti e molti di coloro che hanno votato Di Pietro e il Partito democratico e che avrebbero votato la lista unica della sinistra che fu proposta dall’appello, rimasto inascoltato, di duemila persone.Nulla giustifica questa insensata dispersione di voti, che si spiega soltanto con lo scontro irragionevole, tutto interno al ceto politico, al quale si sono interamente dedicati, nell’anno successivo alla sconfitta del 2008, gli attuali gruppi della sinistra, fino alla decisione irresponsabile di contarsi alle elezioni europee, alle spalle dei loro elettori. Non la giustificano certo le differenze ideologiche o di linea politica, assolutamente irrilevanti di fronte alla crisi gravissima della democrazia che sta attraversando il nostro paese. Ed è paradossale che quegli stessi dirigenti dei partiti della sinistra che esaltano continuamente il valore delle differenze, la convivenza tra diversi e il rispetto per “l’altro”, non sappiano poi convivere tra loro né rispettare le loro minuscole, impercettibili differenze.Di questa espropriazione della rappresentanza, del tutto prevedibile - ieri come domani - in presenza degli sbarramenti imposti dalle attuali leggi elettorali, i gruppi dirigenti di tutte le formazioni della sinistra dovrebbero oggi rispondere ai loro elettori. Sarebbe una prova di serietà e di rispetto per i milioni di persone che li hanno votati e di un ritrovato senso di responsabilità per il futuro non solo della sinistra ma anche della nostra democrazia. Occorrerebbe, a questo scopo, che quei dirigenti affrontassero, davanti ai loro elettori, le due questioni che, nell’assemblea convocata a Firenze il 7 marzo dai firmatari dell’appello “per una lista unica della sinistra”, si impegnarono pubblicamente a discutere dopo le elezioni: il problema dell’unità delle forze della sinistra e, insieme, la rifondazione della loro rappresentatività politica.Il primo problema è di carattere soprattutto culturale. Sulle questioni che contano – la democrazia, il lavoro, i diritti, la laicità – non esistono sostanziali differenze tra i diversi frammenti della sinistra, divisi invece da infinite rivalità, diffidenze e ostilità incomprensibili, il cui unico effetto è la fuga delle persone di buon senso dalla militanza e dall’interesse stesso per la politica. L’unità della sinistra, che certamente esiste nell’elettorato come dimostrano le tante esperienze unitarie di base, richiede perciò il superamento di un vizio antico e autodistruttivo: la diffidenza e il sospetto settario che porta sempre a vedere un nemico nel compagno più vicino e a svalutarne le differenti opinioni come segni di deviazioni o di interessi inconfessati; l’intolleranza per il dissenso anche su questioni marginali e la pretesa autoritaria che tutti si riconoscano in un pensiero unico e comune; l’incapacità di convivere, insomma, con compagni che hanno idee anche solo minimamente diverse.Il secondo problema, ancora più importante, è il rinnovamento delle forme dell’agire politico, come hanno proposto Giulio Marcon e Mario Pianta nel loro intervento del 9 giugno sul manifesto. Ciò che si richiede, a mio parere, è soprattutto una rifondazione della rappresentanza politica, possibile solo se i partiti torneranno ad essere organi della società, anziché dello Stato, e a tal fine assumeranno regole elementari di democrazia interna a cominciare da quella, che proponemmo nel nostro appello, dell’incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali di tipo elettivo. E’ questo un problema di carattere generale, che riguarda la perdita di rappresentatività dell’intero sistema politico. Ma per la sinistra è assolutamente vitale. Il principale fattore di vanificazione della rappresentanza è infatti originato dalle auto-candidature alle elezioni dei vertici dei partiti e dal conseguente venir meno della distinzione tra rappresentanti e rappresentati e del rapporto di rappresentanza e responsabilità dei primi rispetto ai secondi. I partiti, e più che mai un partito della sinistra, riacquisteranno perciò credibilità, autorevolezza e capacità di promuovere e motivare l’impegno politico solo se torneranno a radicarsi nella società, restaurando, attraverso rigide incompatibilità, quel rapporto di mediazione e di alterità rispetto ai loro rappresentanti nelle istituzioni elettive: se, in altre parole, diverranno partiti sociali, oltre che politici, cui compete l’elaborazione dal basso dei programmi e degli indirizzi, la designazione dei candidati alle istituzioni elettive e il controllo sugli eletti, ma non il diretto esercizio delle funzioni istituzionali rappresentative, che solo così risulteranno responsabilizzate nei loro confronti.I due problemi, entrambi vitali per il futuro della sinistra, sono chiaramente connessi. In tanto si potranno ritrovare le ragioni programmatiche dell’unità nell’impegno, sicuramente comune, in difesa della democrazia e del lavoro, della costituzione e dei diritti fondamentali, in quanto i partiti rientrino nella società quali luoghi di aggregazione e di elaborazione politica, superando i personalismi, i dilemmi identitari, le rivalità e le divisioni di vertice e mettendo al riparo i loro dirigenti dalle tentazioni delle auto-elezioni e dalla conseguente separazione dalle loro basi sociali. Se gli attuali gruppi della sinistra, traendo lezione dagli errori del passato, troveranno la forza di questa auto-riforma, la loro sconfitta non sarà stata del tutto vana.
Sul futuro della sinistra
Esiste in Italia un popolo di sinistra che raggiunge almeno il 10% dell’elettorato e che è privo di rappresentanza politica. E’ una cifra calcolata per difetto: il 7% dei voti gettati al vento dalle tre liste di sinistra – Rifondazione, Sinistra e Libertà e il Partito comunista di Ferrando – una parte rilevante degli astensionisti e molti di coloro che hanno votato Di Pietro e il Partito democratico e che avrebbero votato la lista unica della sinistra che fu proposta dall’appello, rimasto inascoltato, di duemila persone.Nulla giustifica questa insensata dispersione di voti, che si spiega soltanto con lo scontro irragionevole, tutto interno al ceto politico, al quale si sono interamente dedicati, nell’anno successivo alla sconfitta del 2008, gli attuali gruppi della sinistra, fino alla decisione irresponsabile di contarsi alle elezioni europee, alle spalle dei loro elettori. Non la giustificano certo le differenze ideologiche o di linea politica, assolutamente irrilevanti di fronte alla crisi gravissima della democrazia che sta attraversando il nostro paese. Ed è paradossale che quegli stessi dirigenti dei partiti della sinistra che esaltano continuamente il valore delle differenze, la convivenza tra diversi e il rispetto per “l’altro”, non sappiano poi convivere tra loro né rispettare le loro minuscole, impercettibili differenze.Di questa espropriazione della rappresentanza, del tutto prevedibile - ieri come domani - in presenza degli sbarramenti imposti dalle attuali leggi elettorali, i gruppi dirigenti di tutte le formazioni della sinistra dovrebbero oggi rispondere ai loro elettori. Sarebbe una prova di serietà e di rispetto per i milioni di persone che li hanno votati e di un ritrovato senso di responsabilità per il futuro non solo della sinistra ma anche della nostra democrazia. Occorrerebbe, a questo scopo, che quei dirigenti affrontassero, davanti ai loro elettori, le due questioni che, nell’assemblea convocata a Firenze il 7 marzo dai firmatari dell’appello “per una lista unica della sinistra”, si impegnarono pubblicamente a discutere dopo le elezioni: il problema dell’unità delle forze della sinistra e, insieme, la rifondazione della loro rappresentatività politica.Il primo problema è di carattere soprattutto culturale. Sulle questioni che contano – la democrazia, il lavoro, i diritti, la laicità – non esistono sostanziali differenze tra i diversi frammenti della sinistra, divisi invece da infinite rivalità, diffidenze e ostilità incomprensibili, il cui unico effetto è la fuga delle persone di buon senso dalla militanza e dall’interesse stesso per la politica. L’unità della sinistra, che certamente esiste nell’elettorato come dimostrano le tante esperienze unitarie di base, richiede perciò il superamento di un vizio antico e autodistruttivo: la diffidenza e il sospetto settario che porta sempre a vedere un nemico nel compagno più vicino e a svalutarne le differenti opinioni come segni di deviazioni o di interessi inconfessati; l’intolleranza per il dissenso anche su questioni marginali e la pretesa autoritaria che tutti si riconoscano in un pensiero unico e comune; l’incapacità di convivere, insomma, con compagni che hanno idee anche solo minimamente diverse.Il secondo problema, ancora più importante, è il rinnovamento delle forme dell’agire politico, come hanno proposto Giulio Marcon e Mario Pianta nel loro intervento del 9 giugno sul manifesto. Ciò che si richiede, a mio parere, è soprattutto una rifondazione della rappresentanza politica, possibile solo se i partiti torneranno ad essere organi della società, anziché dello Stato, e a tal fine assumeranno regole elementari di democrazia interna a cominciare da quella, che proponemmo nel nostro appello, dell’incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali di tipo elettivo. E’ questo un problema di carattere generale, che riguarda la perdita di rappresentatività dell’intero sistema politico. Ma per la sinistra è assolutamente vitale. Il principale fattore di vanificazione della rappresentanza è infatti originato dalle auto-candidature alle elezioni dei vertici dei partiti e dal conseguente venir meno della distinzione tra rappresentanti e rappresentati e del rapporto di rappresentanza e responsabilità dei primi rispetto ai secondi. I partiti, e più che mai un partito della sinistra, riacquisteranno perciò credibilità, autorevolezza e capacità di promuovere e motivare l’impegno politico solo se torneranno a radicarsi nella società, restaurando, attraverso rigide incompatibilità, quel rapporto di mediazione e di alterità rispetto ai loro rappresentanti nelle istituzioni elettive: se, in altre parole, diverranno partiti sociali, oltre che politici, cui compete l’elaborazione dal basso dei programmi e degli indirizzi, la designazione dei candidati alle istituzioni elettive e il controllo sugli eletti, ma non il diretto esercizio delle funzioni istituzionali rappresentative, che solo così risulteranno responsabilizzate nei loro confronti.I due problemi, entrambi vitali per il futuro della sinistra, sono chiaramente connessi. In tanto si potranno ritrovare le ragioni programmatiche dell’unità nell’impegno, sicuramente comune, in difesa della democrazia e del lavoro, della costituzione e dei diritti fondamentali, in quanto i partiti rientrino nella società quali luoghi di aggregazione e di elaborazione politica, superando i personalismi, i dilemmi identitari, le rivalità e le divisioni di vertice e mettendo al riparo i loro dirigenti dalle tentazioni delle auto-elezioni e dalla conseguente separazione dalle loro basi sociali. Se gli attuali gruppi della sinistra, traendo lezione dagli errori del passato, troveranno la forza di questa auto-riforma, la loro sconfitta non sarà stata del tutto vana.
6 commenti:
di questo passo il futuro della sinistra è sempre meno rosso
Loris, non "SE". Gli attuali gruppi della sinistra, traendo lezione dagli errori del passato, D E V O N O trovare la forza di quell'autoriforma.
E al più presto.
questa è una buona analisi sull'argomento.
Grazie per averla diffusa.
Merita un link anche in un mio post
paradossale in cui mi domando come mai "le sinistre" non superino lo sbarramento nonostante Berlusconi veda comunisti ovunque.
Questa mi sembra una buona risposta.
Analisi perfetta e completa quella di Ferrajoli, ma sarà un percorso difficile quello che porterà a far mettere da parte i personalismi dei vari dirigenti politici, ma vale la pena provarci, anzi DOBBIAMO provarci.Bisogna assolutamente trovare un progetto politico, che venga condiviso da tutti, altrimenti l'ennesimo cartello elettorale non porterà nessun risultato, vanno messe da parte segreterie e poltroncine per abbracciare un progetto concreto e costruttivo. A presto
Possiamo scrivere d'ufficio Ferrajoli nel club dei pettinatori di bambole, smacchiatori di leopardi, raddrizzatori di banane e pestatori d'acqua. Avanti c'è posto!!!
Non è così, mi sono vergognata profondamente dei litigi e delle critiche fatte nei vari governi Prodi, dove bisognava essere uniti,con spirito di corpo per cambiare, per governare... gli stessi atteggiamenti li vedo adesso, beghe, primedonne, egocentrismi..e non contenuti. Io sono comunista, vengo da anni di militanza del PCI, ora sto con il PD, per responsabilità politica.
Grazie, per la citazione sul mio post... quella è anche la mia storia.
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